Ambiente: sull'ambito di applicazione della VAS

NOTA

La sentenza si sofferma (anche) sui limiti di impugnazione della decisione della P.A. di sottrarre a VAS alcuni piani o programmi (nella specie, variante parziale al piano regolatore generale comunale).

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N. 02446/2013REG.PROV.COLL.

N. 07348/2012 REG.RIC.

N. 07350/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7348 del 2012, proposto da:
Pentagramma Piemonte S.p.A., in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Giorgio Santilli, Ennio Magrì, con domicilio eletto presso Ennio Magrì in Roma, via Guido D’Arezzo 18;

contro

8 Gallery Immobiliare Srl, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Gianluca Gariboldi, Stefano Soncini, Gabriele Di Paolo, con domicilio eletto presso Gabriele Di Paolo in Roma, viale Liegi 35/B;

nei confronti di

Comune di Torino, Regione Piemonte, Provincia di Torino, Arpa Piemonte, Comune di Moncalieri, Direzione Regionale Per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte; Ministero Per i Beni e Le Attivita’ Culturali, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge,;

e con l’intervento di

ad opponendum:
Buratti Paolo & C.S.A.S., L.I.T.L.A. S.r.l., Bar La Sosta, rappresentati e difesi dagli avv. Claudio Dal Piaz, Paolo Borioni, con domicilio eletto presso Paolo Borioni in Roma, via Caposile, 10; Permos S.n.c. di Perdoncin & C., Gioielli Già Alpi Gold S.a.s., Ruggiero Davide Stazione Eni Imp. 947, Comitato Imprenditori e Commercianti via Corrado Corradino, rappresentati e difesi dagli avv. Paolo Borioni, Claudio Dal Piaz, con domicilio eletto presso Paolo Borioni in Roma, via Caposile, 10;

sul ricorso numero di registro generale 7350 del 2012, proposto da:
Comune di Torino, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Maria Lacognata, Massimo Colarizi, con domicilio eletto presso Massimo Colarizi in Roma, viale Bruno Buozzi N. 87;

contro

8 Gallery Immobiliare Srl, r in persona del legale rappresentante in caricaappresentato e difeso dagli avv. Gianluca Gariboldi, Stefano Soncini, Gabriele Di Paolo, con domicilio eletto presso Gabriele Di Paolo in Roma, viale Liegi 35/B;

nei confronti di

Pentagramma Piemonte Spa, Regione Piemonte, Provincia di Torino, Arpa Piemonte, Comune di Moncalieri; Ministero Per i Beni e Le Attivita’ Culturali, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

e con l’intervento di

ad adiuvandum:
Corio Italia S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Fabrizio Gaidano, Mario Contaldi, con domicilio eletto presso Mario Contaldi in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, 63;
ad opponendum:
Buratti Paolo & C. Sas, rappresentato e difeso dagli avv. Claudio Dal Piaz, Paolo Borioni, con domicilio eletto presso Paolo Borioni in Roma, via Caposile, 10; ad opponendum:
Permos Snc, L.I.T.L.A. Srl, Fg Gioielli Sas, Bar La Sosta, Ruggiero Davide Stazione Eni Imp 947, Com. Impr. e Comm. via Corrado Corradino, rappresentati e difesi dagli avv. Paolo Borioni, Francesco Dal Piaz, con domicilio eletto presso Paolo Borioni in Roma, via Caposile, 10;

per la riforma

quanto al ricorso n. 7348 del 2012:

della sentenza del T.a.r. del Piemonte – Sede di Torino- Sezione I n. 00712/2012, resa tra le parti, concernente adozione ed approvazione variante parziale prgc – nuova destinazione d’uso “palazzo del lavoro”- mcp

quanto al ricorso n. 7350 del 2012:

della sentenza del T.a.r. del Piemonte – Sede di Torino- Sezione I n. 00712/2012, resa tra le parti, concernente adozione ed approvazione variante parziale prgc – nuova destinazione d’uso “palazzo del lavoro – mcp

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di 8 Gallery Immobiliare Srl e di Ministero Per i Beni e Le Attivita’ Culturali;

Visti gli atti di intervento di Buratti Paolo & C. Sas ed altri e di Corio Italia s.r.l.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 marzo 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Ennio Magrì, Dover Scalera (su delega di Gabriele Di Paolo), Paolo Borioni l’Avvocato dello Stato Daniela Giacobbe Massimo Colarizi, Maria Lacognata, Gianluca Gariboldi, Fabrizio Gaidano;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con il ricorso di primo grado, corredato da motivi aggiunti era stato chiesto dalla odierna appellata 8 Gallery Immobiliare S.r.l., l’annullamento del procedimento di formazione della variante parziale n. 190 al PRG del Comune di Torino, approvata con delibera di CC 24 maggio 2010, n. 66, nonché della delibera del CC n. 132 del 21.9.2009 di adozione della variante parziale, nonché di ogni altro atto o provvedimento presupposto, conseguente o comunque connesso ivi inclusa la determinazione dirigenziale n. 277 dell’11.9.2009, nonché i relativi pareri espressi dalla conferenza di servizi dell’1.9.2009 e le precedenti valutazioni riportate nella predetta determina 11.9.2009, n. 277, nonché le autorizzazioni rilasciate dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, nonché la DGR 9.6.2008, n. 12 ( ciò mercè il ricorso introduttivo del giudizio ed i motivi aggiunti depositati il 12 gennaio 2011).

Con ulteriore ricorso per motivi aggiunti depositato il 5 gennaio 2012 la 8 Gallery Immobiliare S.r.l., aveva altresì gravato la delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/009 di approvazione del permesso di costruire convenzionato relativo all’ambito “16.30 Palazzo del Lavoro”e gli atti a questa sottesi e connessi.

La 8 Gallery Immobiliare s.r.l., aveva premesso di essere proprietaria e di gestire il Centro Commerciale 8 Gallery, ubicato in Torino alla via Nizza, all’interno del complesso immobiliare “Il Lingotto”: essa si doleva degli atti con i quali il Comune di Torino era pervenuto, ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77, alla approvazione definitiva della variante “parziale” di P.R.G. n. 190, la quale aveva impresso al poco distante Palazzo del Lavoro una nuova destinazione d’uso compatibile con quella commerciale.

Aveva prospettato sei articolate censure di violazione di legge ed eccesso di potere, con le quali, tra l’altro, lamentava che il Comune si fosse determinato ad approvare la detta variante con procedura “semplificata”, in violazione dell’art. 17 comma 7 della legge regionale del Piemonte n. 56/77 pur non ricorrendone i presupposti, che il procedimento preliminare di valutazione della sottoponibilità a vas del progetto si fosse concluso con una delibera di esclusione (pur asseritamente ricorrendo una ipotesi di obbligatoria sottoposizione a vas).

Aveva altresì sostenuto che il Palazzo del Lavoro ove sarebbero dovuti avvenire i lavori era un immobile demaniale vincolato ai sensi della tavola 14 del PRG e che quindi non avrebbe potuto essere alienato senza l’autorizzazione ministeriale (e tanto meno poteva essere alienato a soggetti privati) ipotizzando la violazione del d. L.vo n. 42/2004.

Con i ricorsi per motivi aggiunti aveva puntualizzato, ribadito, ed ampliato le dette censure prospettandone altresì ulteriori avverso gli atti medio tempore emessi.

Il Comune di Torino, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Pentagramma Piemonte s.r.l, costituendosi nel giudizio di primo grado avevano chiesto la reiezione del mezzo perché infondato.

Il primo giudice ha fatto precedere l’analitica disamina delle censure prospettate da una ricostruzione, anche sotto il profilo cronologico, del procedimento amministrativo che aveva condotto all’adozione degli atti censurati.

A tale proposito, ha fatto presente che con D.M. 11 gennaio 1950 era stato imposto, sulle sponde del fiume Po, nel tratto compreso tra le foci del torrente Sangone e quelle della Stura, un vincolo paesaggistico insistente anche sull’area oggetto della variante impugnata.

Il Palazzo del Lavoro, invece, pur essendo considerato una importante opera architettonica – tanto da essere incluso dal PRG nell’elenco degli “edifici e manufatti speciali di valore documentario” – non era mai stato fatto oggetto, sino al 2011, di alcun procedimento finalizzato alla imposizione di un vincolo culturale (non essendo ancora trascorsi 50 anni dalla sua realizzazione).

Quanto all’iter procedimentale, ha rammentato che con delibera di consiglio comunale n. 66 del 24 maggio 2010 il Comune di Torino aveva approvato in via definitiva, ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77, la variante parziale n. 190.

Essa riguardava un’area di circa 60.000 metri quadri delimitata dai corsi Unità d’Italia e Maroncelli, nonché da via Nizza, un tempo di proprietà demaniale ma poi ceduta alla società Fintecna s.p.a. dante causa della odierna appellante principale Pentagramma Piemonte. Sulla stessa venne realizzato, nel 1961, il Palazzo del Lavoro, considerato un’opera architettonica di grande rilevanza

Secondo il PRG approvato nel 1995 l’intera superficie dell’area in considerazione ricadeva in Area per servizi pubblici S, disciplinata dall’art. 15 delle norme di attuazione.

In particolare, la superficie corrispondente all’impronta a terra del Palazzo del Lavoro – pari a 28.000 mq – era tipizzata quale sottozona “z – aree per attività di interesse pubblico generale (musei, teatri, attrezzature fieristiche e congressuali, attrezzature per la mobilità, attrezzature giudiziarie, annonarie…)”, mentre l’area circostante era invece tipizzata quale sottozona “v –giardini, aree verdi per la sosta e il gioco, parchi naturali e attrezzati e servizi connessi, comprensivi di eventuale ambito agricolo, attrezzature sportive al coperto e all’aperto, attrezzature per il tempo libero)”.

La destinazione commerciale era dunque esclusa secondo le previsioni del P.R.G. approvato nel 1995: con la delibera di C.C. n. 36 del 2 marzo 2009 (con cui venne approvata la Variante 160 di adeguamento del PRG ai criteri per l’insediamento delle attività commerciali) all’area risultavano applicabili i parametri previsti per gli addensamenti A2.

Il Comune infatti, rispondendo alle osservazioni presentate dalla onlus “pro natura Torino” avverso la delibera di adozione della Variante 190, ebbe ad affermare nelle proprie controdeduzioni che “La struttura (n.d.r.: il Palazzo del Lavoro) rientra nei parametri previsti per addensamento A2 Bengasi come definito cartograficamente dalla richiamata Variante 160 al P.R.G. in fase di approvazione, invero la stessa é inserita in una sezione di censimento contigua ad altra sezione di censimento che rientra nell’addensamento A2 con un valore di appartenenza pari a 100 …..Conseguentemente a tale classificazione si applicano pertanto i disposti e le procedure attuative e autorizzative previste dalle norme di settore relative agli addensamento A2.”.

Dalla classificazione della zona quale addensamento A2 discendeva, in base alla tabella di compatibilità tipologico-funzionale dello sviluppo urbano del commercio (inserita all’art. 16 delle norme di cui sopra nella versione adottata nel 2009, ed all’art. 12 nella versione come definitivamente approvata nel 2011), la possibilità di insediarvi esercizi di vicinato, medie strutture di vendita nonché centri commerciali di tipologia MCC (medie strutture con superficie di vendita compresa tra i 251 e i 2.500 mq) nonché G-CC1 ( grandi strutture con superficie di vendita fino a 6.000 mq.).

Il primo giudice ha altresì rilevato che il Comune di Torino, proprio nelle controdeduzioni alle osservazioni presentate dalla onlus “pro natura Torino” aveva anche affermato che “in relazione alla possibilità di riconoscere una localizzazione L2 si rileva l’inopportunità di tale soluzione, in quanto avrebbe determinato la compatibilità per strutture commerciali con superficie fino a 12.000 mq di vendita, rispetto ai 6.000 mq. massimi previsti negli addensamenti A2. Peraltro nelle localizzazioni L2 non esiste alcuna limitazione al numero di autorizzazioni rilasciabili nell’ambito di una stessa localizzazione…Pertanto con la localizzazione L2 sarebbe possibile l’insediamento di più attività per una superficie di vendita complessiva definita solo dalla SLP massima” .

Da tale esternazione il primo giudice ha tratto il convincimento che durante l’iter di approvazione della Variante 190 il Comune si era concretamente prefigurata la possibilità di realizzare un centro commerciale “naturale”; peraltro in sede di approvazione definitiva della variante medesima emergeva anche l’intendimento di porre dei limiti alla possibilità di sfruttare a scopo commerciale il Palazzo del Lavoro, escludendo il riconoscimento di una localizzazione L2 e, così, sia la possibilità di insediare superfici di vendita superiori a 6.000 mq sia la possibilità di rilasciare più autorizzazioni nella stessa localizzazione.

Il Tar ha altresì rilevato che la società Pentagramma s.r.l., divenuta proprietaria del Palazzo del Lavoro, ha avanzato una proposta di recupero funzionale dell’edificio mediante riorganizzazione delle superfici e dei volumi interni e senza modificazione alcuna dell’immagine esterna, con lo scopo di insediare servizi alle persone ed alle imprese.

La soluzione progettuale proposta da Pentagramma era sin dall’inizio orientata, contestualmente al recupero ed alla ristrutturazione dell’edificio, alla realizzazione di un “centro commerciale naturale”, (cioè di una tipologia di centro commerciale che, secondo la definizione datane dall’art. 4 comma 2 lett. c) delle norme raccolte nell’allegato C al PRG, consisteva in “un insieme di esercizi commerciali al dettaglio e di altri servizi accessori -direzione, portineria, servizi post vendita etc…- ubicati in addensamenti commerciali come definiti al successivo art. 8, che si affacciavano in prevalenza su vie o piazze urbane e costituiti in forma associata e/o societaria, anche a capitale misto, per la gestione comune di servizi e di azioni di promozione a marketing territoriale. Il Comune può aderire al progetto associativo o societario. Non viene determinata la superficie di vendita complessiva in quanto le autorizzazioni commerciali sono separate, indipendenti e non discendono da un unico provvedimento generale”. All’art. 2 n.4 delle norme medesime si affermava, inoltre, che “La superficie di vendita di un centro commerciale diverso da quelli naturali (come definiti al successivo articolo 4) é data dalla somma delle superfici di vendita degli esercizi commerciali al dettaglio in esso presenti”).

Da ciò si evinceva che per i “centri commerciali naturali”, dunque, non si doveva effettuare la sommatoria delle superfici dei vari esercizi commerciali ai fini di valutare la loro compatibilità rispetto ai parametri di zona.

Da tali elementi il primo giudice ha fatto discendere il convincimento per cui il riferimento specifico alla possibilità di realizzare un “centro commerciale naturale” era contenuto nella versione adottata della Variante 190( che appunto prevedeva espressamente la possibilità di utilizzare l’edificio a tale fine, ma tale riferimento era stato tolto in sede di approvazione definitiva). Ciò in quanto –nelle già citate controdeduzioni del Comune- era dato leggere al proposito: “…si ritiene parzialmente accoglibile l’osservazione circa il riferimento al “Centro Commerciale Naturale” impropriamente inserito nella Scheda Urbanistica e pertanto si provvede ad eliminare da detta scheda il riferimento al Centro Commerciale Naturale e a modificare contestualmente parti della relazione illustrativa. Per contro si possono, invece, predisporre e favorire le condizioni urbanistiche affinché l’eventuale centro commerciale naturale sia costituito (quando tutte le condizioni si dovessero verificare) con particolare riferimento all’insediamento delle attività commerciali compatibilità secondo la tabella approvata dei Criteri Commerciali in addensamento A2. Il promotore ed il comune possono, comunque, assumere precisi impegni per la costituzione futura di un centro commerciale naturale….”.

Il Comune, dunque, in sede di approvazione definitiva della Variante 190 aveva provveduto a stralciare dalla scheda-progetto 16.30 il riferimento alla possibilità di insediare un “centro commerciale naturale”, ( non tanto per la ragione che tale tipologia veniva ritenuta incompatibile con la struttura, quanto per la ragione che non si doveva vincolare la futura attività progettuale esecutiva della Variante).

Con la variante 190 il Comune di Torino aveva ritipizzato l’area quale “Z.U.T. – Zona Urbana di Trasformazione 16.30” disciplinata dagli artt. 7 e 15 delle norme di attuazione nonché da una specifica scheda di progetto: la detta variante 190 era stata approvata, quale variante “parziale” ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77, e quindi all’esito di una procedura semplificata che non aveva comportato l’intervento della Regione.

La qualificazione della variante in termini di “variante parziale” la circostanza che essa non avesse ad oggetto interventi soggetti a VIA, né interventi implicanti la creazione di nuovi volumi, la variazione del sistema delle tutele ambientali previste dal PRG o incidenti su beni paesaggistici, aveva indotto l’Amministrazione a sottoporre il progetto a semplice valutazione di assoggettabilità a VAS (ed all’esito alla conferenza di servizi all’uopo riunita, il Dirigente del Settore Ambiente e Territorio del Comune di Torino, con determinazione n. 277 dell’11 settembre 2009 aveva escluso la variante dalla VAS).

La variante 190 era stata conclusivamente approvata in via definitiva, con la delibera di Consiglio Comunale n. 66 del 24 maggio 2010, senza essere stata rimessa alla valutazione degli organi regionali e senza essere stata sottoposta a VAS.

Con la delibera di Giunta Comunale n. 6421/009 del 15 novembre 2011 era stato approvato il permesso di costruire convenzionato presentato da Pentagramma Piemonte s.p.a., il quale aveva ad oggetto un intervento di ristrutturazione edilizia consistente in una ridefinizione dei volumi e delle superfici interne al Palazzo del lavoro, con realizzazione di volumi distribuiti su tre piani, nonché di una piazza e di passaggi pedonale soggetti ad uso pubblico.

Nella relazione illustrativa non si chiariva la destinazione di tali volumi, ad eccezione di un accenno alla galleria di negozi che doveva sorgere al piano terra.

Nella bozza di convenzione, tuttavia, si era chiarito che l’edificio avrebbe dovuto ospitare una superficie massima di 1.800 mq destinata alla vendita di alimentari oltre ad una ulteriore superficie si vendita complessiva di circa 12.000 mq. (art. 4 della bozza di convenzione approvata: negli atti difensivi di Pentagramma Piemonte s.p.a. : quest’ultima aveva sostenuto che la realizzazione di tali spazi di vendita avrebbe costituito un “centro commerciale naturale”) .

La convenzione prevedeva altresì la cessione a favore del Comune di circa 19.000 mq localizzati all’interno del fabbricato, costituenti parte della superficie da destinarsi a viabilità pedonale, a spazi di relazione e servizi pubblici: in particolare la piazza pubblica centrale, i collegamenti verticali ed i camminamenti interni al fabbricato, individuati su più livelli.

Ultimata la ricostruzione del quadro fattuale procedimentale che aveva condotto all’approvazione degli atti avversati, il primo giudice ha partitamente esaminato le dedotte censure.

Ha esaminato e respinto quella (quinto motivo del ricorso principale) incentrata sulla supposta violazione del d. L.vo n. 42/2004, dando atto della circostanza che nessun vincolo insisteva sul Palazzo ed affermando conseguentemente che l’ art. 11 del D. L.vo 42/04, nell’affermare che “Fatta salva l’applicazione dell’art. 10, qualora ne ricorrano i presupposti e condizioni, sono beni culturali in quanto oggetto di specifiche disposizioni del presente Titolo:…” i beni ivi elencati, avesse inteso affermare che si poteva prescindere dal procedimento di verifica dell’interesse culturale in relazione ai beni medesimi ma solo ai fini della applicazione delle specifiche norme che ad essi si riferivano, e non ad altri fini. Ad ogni diverso effetto non era invece possibile prescindere da un formale accertamento dell’interesse culturale del bene ( che nel caso di specie non poteva avere luogo prima del 1° gennaio 2011): la cessione del Palazzo del Lavoro, ad avviso del primo giudice, era quindi avvenuta validamente poiché non era soggetta ad autorizzazione ministeriale.

Il Tar ha invece preso in esame ed accolto la doglianza volta a sostenere che la variante 190 era illegittima, perché avrebbe dovuto essere sottoposta a VAS obbligatoria ai sensi dell’allegato IV punto 7 lett. b) al D. L.vo 152/06.

Quest’ultimo indicava, tra i progetti da sottoporre a VIA obbligatoria, i centri commerciali come definiti dal D. L.vo 114/98 senza fare alcuna distinzione tra le varie tipologie di centri commerciali: la VIA doveva pertanto ritenersi necessaria per ogni tipo di centro commerciale che rispondesse alle caratteristiche indicate dal D. L.vo 114/98, indipendentemente dalle sue dimensioni.

Per altro verso, la variante 190 obbligava comunque alla realizzazione di parcheggi ad uso pubblico in misura non inferiore a 20.000 mq, superficie questa idonea a contenere almeno 500 posti auto (come peraltro poteva desumersi dalla lettura della bozza di convenzione, ove si prevedeva la realizzazione di 900 posti auto su una superficie di 25.200 mq).

Ad avviso del Tar, proprio perché la Variante 190 era, potenzialmente idonea a consentire sia la realizzazione di un parcheggio ad uso pubblico di tali dimensioni sia la realizzazione di un centro commerciale, sia pure di modeste dimensioni (di tipo MCC o G-CC1) essa avrebbe dovuto essere sottoposta , ai sensi del combinato disposto dell’art. 6 comma 2 lett. a) e dell’allegato 4 punto 7 lett. b) del D. L.vo 152/06, a VAS obbligatoria.

La normativa italiana (prevalente sulle diverse disposizioni regionali trattandosi di materia in cui le regioni non vantano potestà legislativa esclusiva) escludeva dalla VAS obbligatoria solo i piani e programmi che determinavano l’uso di piccole aree a livello locale o modificazioni “minori” (art. 6 comma 3 D. L.vo 152/06) : la variante oggetto di causa, stante l’ampiezza della stessa, non poteva rientrare in tale deroga in quanto l’area complessivamente interessata era pari a circa 60.000 mq.

Era incontroverso che nel caso di specie ci si trovava al cospetto di una modifica ad un PRG che non era stato sottoposto a VAS prima della sua approvazione (il che imponeva la Vas anche relativamente alle modifiche).

Il primo giudice ha altresì rimarcato che laddove un atto di pianificazione consentisse la realizzazione di progetti da sottoporre a VIA obbligatoria (e cioé quelli di cui agli allegati II, III e IV del D. Lv.o 152/06), la VAS non potesse essere omessa sulla mera considerazione che il piano imprimeva una destinazione generica circa la cui attuazione nulla era definito: una simile interpretazione dell’articolo 6 comma 2 lett. a) del D. L.vo 152/06 avrebbe frustrato ratio e lettera della citata disposizione Al contrario, doveva affermarsi che la VAS doveva essere obbligatoriamente effettuata in tutti i casi in cui si debbano approvare atti di pianificazione territoriale che consentano di realizzare progetti sottoposti a VIA obbligatoria, indipendentemente dalla puntualità e dalla specificazione delle relative previsioni ed ancorché la realizzazione di siffatti progetti costituisca una mera eventualità.

Ad avviso del primo giudice, inoltre, la VAS avrebbe dovuto essere disposta anche in base alle direttive regionali: sebbene all’allegato II della DGR n. 12-8931 del 9 giugno 2008 fosse stabilito che le varianti parziali formate ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77 fossero di massima soggette a verifica di assoggettabilità a VAS, tuttavia le medesime disposizioni specificavano che nel corso di detto procedimento doveva essere verificato se le varianti costituissero il quadro di riferimento per progetti sottoposti a VIA obbligatoria.

Ma la omessa sottoposizione della variante n. 190 a Vas obbligatoria non è stata l’unico profilo di illegittimità affermato dal primo giudice.

Il Tar, infatti, ha accolto anche le censure attingenti il quomodo della qualificazione, prima, ed approvazione poi, della detta variante n. 190.

Quest’ultima infatti era stata approvata quale variante “parziale” mentre, ad avviso del primo giudice, avrebbe dovuto essere approvata con la procedura propria delle varianti “strutturali” nel cui ambito doveva essere classificata.

Ciò perché la zona oggetto della variante era collocata, difatti, a confine con il Comune di Moncalieri ed a ridosso di una viabilità interessata da notevole traffico.

In considerazione di tali flussi di traffico e della vicinanza del Comune di Moncalieri la Giunta Provinciale, nel parere assunto ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77, aveva subordinato l’avviso favorevole alla variante alla condizione “di richiedere, prima dell’approvazione definitiva della Variante, la previsione di idonee soluzioni infrastrutturali, da concertare con la Provincia e con il Comune di Moncalieri, finalizzate a migliorare le condizioni di accessibilità veicolare connesse alle rilevanti funzioni commerciali previste, in considerazione delle caratteristiche della viabilità e dei notevoli flussi di traffico in atto e che interessano Corso Unità d’Italia, l’intersezione in rotatoria di Corso Maroncelli in Torino, il Corso Trieste in Moncalieri”.

La Provincia aveva espresso analogo avviso nel corso della procedura di assoggettabilità a VAS e proprio nella determina dirigenziale n. 277/09, (che aveva determinato di escludere la Variante 190 dalla VAS) era stato prescritto prima del rilascio delle autorizzazioni commerciali, che “siano valutati e specificate le azioni e soluzioni progettuali viabili da intraprendere sul sistema locale, onde poter mitigare le criticità sulla mobilità privata. In particolare sia verificata la fattibilità tecnico-economica di interventi migliorativi della viabilità attuale di corso Trieste in Moncalieri, in prossimità della rotonda Maroncelli….”.

Ad avviso del primo giudice, ciò rendeva evidente che la Variante 190 era suscettibile di indurre una modifica della funzionalità di infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale (id est: della viabilità che collegava l’area della Variante con il Comune di Moncalieri), il che avrebbe integrato una delle condizioni ex art. 17 comma 4 lett. a) della L.R. 56/77 – alle quali la legge regionale urbanistica annetteva la necessità di seguire il procedimento ordinario per la approvazione di una variante.

La Variante n. 190, quindi, avrebbe dovuto essere approvata con il procedimento ordinario di cui all’art. 15 della L.R. 56/77, e non con il procedimento semplificato di cui all’art.17 comma 7.

Il ricorso principale è quindi stato accolto in ragione della fondatezza del secondo e del quarto dei motivi, con assorbimento del primo motivo, del terzo e del sesto dei motivi di ricorso principale nonché dei motivi articolati nel primo ricorso per motivi aggiunti.

Sono state parimenti accolte le censure articolate al primo ed al quinto dei motivi contenuti nel secondo ricorso per motivi aggiunti (non solo per la ragione che esso aveva ad oggetto atti adottati sul presupposto della validità della Variante 190, ma anche) in quanto il Comune nella sostanza aveva approvato la realizzazione di un centro commerciale della superficie di oltre 13.000 mq. nonostante l’allegato C, richiamato dalla scheda d’ambito 16.30, consentisse di aprire al massimo centri di tipologia M-CC ovvero (nel caso in cui l’area si trovi all’interno dell’addensamento A2) centri di tipologia G-CC1.

Al fine di approvare il permesso di costruire convenzionato impugnato con motivi aggiunti l’intervento era stato considerato in termini di “centro commerciale naturale”, (caratterizzato dal fatto che le autorizzazioni amministrative relative ai vari esercizi insediati nel centro erano rilasciate autonomamente e pertanto la superficie di essi non doveva essere sommata ai fini della verifica della compatibilità del centro con la zona in cui era localizzata), e si era considerata la superficie delle singole “unità di vendita” anziché la superficie totale adibita alla vendita ( che in concreto era di molto superiore a quella consentita dai parametri degli addensamenti A2).

Ad avviso del primo giudice la illegittimità di tale modo di procedere si stagliava evidente e l’intervento in progetto non poteva dare luogo ad un “centro commerciale naturale”: la tipologia commerciale di che trattasi era caratterizzata dalla circostanza che gli esercizi che ne facevano parte erano nati spontaneamente ed autonomamente ( ciò chiariva la ragione per cui le rispettive autorizzazioni commerciali ed edilizie venivano rilasciate autonomamente e continuavano ad essere considerate tali anche dopo la costituzione del centro)

Armonicamente con tale genesi l’art. 4 lett. c) delle norme di cui all’allegato C precisava che gli esercizi dovessero essere ubicati all’interno di un addensamento commerciale, senza ulteriori limitazioni : la finalità del “centro commerciale naturale”, del resto, non era data dal fatto che l’utente disponeva di una molteplicità di diversi esercizi in una unica localizzazione, bensì dal fatto che l’utente otteneva un trattamento più favorevole grazie al fatto che gli esercizi che facevano parte del “centro commerciale naturale” dovevano consorziarsi per la gestione in comune di “servizi e di azioni di promozione e marketing territoriale” .

Il “centro commerciale naturale” aveva quindi una natura profondamente diversa dal centro commerciale così come definito dal D. L.vo 114/98, (che invece presupponeva la concentrazione di più esercizi commerciali in una unica localizzazione, sia che si trattasse di in un solo edificio che di più edifici contigui).

L’intervento oggetto del permesso di costruire impugnato, all’ opposto, presupponeva che le varie unità immobiliari fossero realizzate nell’ambito di un progetto unitario e preordinato allo scopo, e non aveva nulla di spontaneo.

Non si giustificava quindi, ad avviso del Tar, il trattamento proprio del “centro commerciale naturale” che si compendiava nel fatto che le superficie dei vari esercizi non si dovevano sommare e conteggiare ai fini del rilascio di un’unica autorizzazione.

Ad avviso del primo giudice, si era tentato di “superare” le limitazioni derivanti dai parametri degli addensamenti A2, (che consentivano l’insediamento di una superficie massima desinata a vendita di 6.000 mq) prevedendo la realizzazione di piazze e vie interne all’edificio ed il trasferimento in proprietà al Comune delle stesse.

Tale previsione,tuttavia da un canto costituiva una evidente forzatura (non si comprende come potesse essere garantito l’uso pubblico di dette vie e piazze pubbliche fuori dagli orari di apertura dei vari esercizi).

Per altro verso, essa neppure serviva allo scopo dal momento che nel “centro commerciale naturale” ci si sarebbe dovuti trovare al cospetto di un accordo, tra gli esercenti ed il Comune, che si sovrapponeva ad una preesistente realtà fisica sorta del tutto spontaneamente (tale tipologia di centro in realtà tendeva a realizzare qualcosa di simile ad una catena di negozi convenzionati ma non un centro commerciale nella accezione datane dal D. L.vo 114/98).

L’intervento edilizio oggetto degli atti impugnati, invece, contemplava la realizzazione contestuale di nuove unità (commerciali e non) all’interno di un unico edificio preesistente, il quale doveva essere a tale scopo ristrutturato. Come tale, pur in presenza di camminamenti pedonali pubblici, esso poteva invece essere ascritto ad un “centro commerciale classico” (come definito dall’art. 4 comma 2 lett. b) delle norme di cui all’allegato C), assentibile nel caso di specie solo nei limiti di una superficie di vendita non superiore a 6.000 mq.

L’intervento in esame, peraltro, implicava il rilascio di più autorizzazioni commerciali: come lo stesso Comune aveva ricordato nelle controdeduzioni prima menzionate, negli addensamenti A2 non era possibile autorizzare l’apertura di più esercizi commerciali in una unica localizzazione, di guisa che ad avviso del Tar non si comprendeva come si fosse potuto pervenire ad approvare un intervento edilizio che, comunque,era finalizzato al rilascio di più autorizzazioni commerciali separate.

In ultimo, il primo giudice ha rilevato la incongruenza del comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale, mentre in sede di replica alle osservazioni pervenute sulla delibera di adozione della Variante 190 aveva affermato la inopportunità di una classificazione di zona che consentisse di destinare a vendita una superficie di 12.000 mq., in sede di approvazione del permesso di costruire convenzionato di fatto aveva consentito di pervenire al medesimo risultato.

Il Tribunale amministrativo ha pertanto annullato la delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/2009, di approvazione del permesso di costruire convenzionato relativo all’ambito “16.30 Palazzo del Lavoro”, con assorbimento degli ulteriori motivi articolati nel secondo ricorso per motivi aggiunti.

Ricorso n. 7348/2012;

La controinteressata Pentagramma Piemonte SPA, proprietaria dell’area ove era stato programmato l’intervento assentito ha proposto una articolata critica alla sentenza suindicata, sotto tutti gli angoli prospettici, chiedendone la riforma.

Dopo avere ripercorso l’iter approvativo dei provvedimenti impugnati in primo grado ed aver dato conto dell’uso cui era stato negli anni adibito il “Palazzo del Lavoro” di Torino, ha esposto i motivi di illegittimità che – a suo avviso –attingevano la gravata sentenza.

In particolare, con il primo motivo di censura ha sostenuto la erroneità della gravata pronuncia nella parte in cui aveva omesso di dichiarare la irricevibilità del mezzo di primo grado laddove quest’ultimo (unitamente alla delibera del CC n. 132 del 21.9.2009 di adozione della variante parziale n. 190 ed alla delibera di CC 24 maggio 2010, n. 66 di approvazione della predetta variante) aveva censurato la determinazione dirigenziale n. 277 dell’11.9.2009 di esclusione della Vas.

La predetta determinazione dirigenziale n. 277 dell’11.9.2009 concludeva infatti un sub-procedimento autonomo; spiegava efficacia lesiva; era stata ritualmente pubblicata: le censure avverso la stessa erano irrimediabilmente tardive, e la omessa sottoposizione a Vas non avrebbe potuto costituire vizio deducibile avverso la delibera n. 190.

Con il secondo motivo di censura ha sostenuto la erroneità della gravata pronuncia nella parte in cui aveva omesso di dichiarare la irricevibilità del mezzo di primo grado laddove quest’ultimo censurava la variante n. 190 pur non avendo mai mosso alcuna doglianza avverso la Variante al PRGC n. 160 approvata con delibera n. 36 del 2 marzo 2009 che aveva ricondotto il Palazzo del Lavoro nell’addensamento commerciale A2 Piazza Bengasi.

La variante n. 190 (che aveva soltanto classificato l’area in “zona urbana di trasformazione” con destinazione Aspi) costituiva attuazione della inimpugnata variante n. 160 e pertanto non avendo gravato detto atto presupposto parte appellata non aveva interesse a gravare la predetta variante n. 190.

Analogo principio è stato prospettato con il terzo motivo di censura con riguardo al secondo ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado ed avversante la delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/2009 con la quale era stato rilasciato il permesso di costruire.

Nel merito, la società appellante ha esaltato il pregio dell’intervento proposto, e l’utilità sociale del medesimo, laddove volto a recuperare alla pubblica fruizione un immobile di pregio fino a quel momento abbandonato, senza alcun incremento “esterno” di volumetria.

Ha quindi censurato il primo caposaldo della statuizione demolitoria con il quale era stata affermata la tesi per cui il detto progetto doveva essere sottoposto a vas obbligatoria, evidenziando nell’ordine che:

a)non si trattava di “costruire” alcun centro commerciale ex d.Lgs. n. 114/1998 ma di mutare la destinazione d’uso di un immobile già esistente, al quale veniva attribuita la categoria “Aspi”;

b)la edificazione dei parcheggi interrati e la dimensione di questi ultimi non era stata mai censurata in primo grado, per cui sul punto la sentenza era viziata ex art. 112 cpc: in ogni caso la necessità di realizzare i parcheggi non “nasceva” dalla variante n. 190 ma dalla convenzione successivamente stipulata dall’appellante società Pentagramma con il Comune di Torino, e comunque si trattava di 900 posti auto, di cui soltanto il 50% era destinato ad uso pubblico.

Quindi si era al di sotto del limite dimensionale di 500 posti auto previsto dall’allegato al d.Lgs n. 152/2006.

In ogni caso le determinazioni censurate non scaturivano dalla Variante, che aveva un ben limitato contenuto urbanistico, ma da atti diversi e successivi, per cui era incongruo affermare che la varante n. 190 predetta dovesse essere sottoposta a Vas.

L’appellante società, con la seconda macrocensura di merito ha criticato il convincimento espresso dal primo giudice secondo il quale la avversata variante n. 190 avesse natura “strutturale” e dovesse essere approvata con la procedura “ordinaria” di cui all’art. 15 della legge regionale del Piemonte n. 65/1977 (piuttosto che secondo la procedura contenuta nell’art. 17 comma 7 della predetta legge regionale del Piemonte n. 65/1977, come in effetti avvenuto).

Anche con riferimento a tale affermazione la sentenza era errata (oltre che illegittima per extrapetizione), non ricorrendo alcuna delle fattispecie normate nei commi 4 e 6 dell’art. 17 comma 7 della predetta legge regionale del Piemonte n. 65/1977,

La variante non era idonea a produrre effetti sulla funzionalità di infrastrutture urbane di rilievo sovracomunale (la questione della viabilità era stata affrontata e positivamente risolta dalla determina di esclusione della Vas n. 277 dell’11.9.2009 circa il miglioramento della viabilità a contorno).

Per altro verso, neppure era corretto affermare che ogni variante idonea a mutare la destinazione d’uso di un immobile superiore a mq. 200 insistente in zona urbanizzata dovesse essere approvata con la lunga e farraginosa procedura “ordinaria”.

Dovevano considerarsi varianti “strutturali” unicamente quelle di cui ai commi 4 e 6 della citata disposizione di cui all’art. 17 comma 7 della predetta legge regionale del Piemonte n. 65/1977.

La elencazione delle “varianti parziali” contenuta al successivo comma 7 non era esaustiva: tutto ciò che non possedeva le caratteristiche di cui ai commi 4 e 6 integrava variante “parziale”: e d’altro canto ben illogica appariva una interpretazione delle predetti disposizioni che si spingesse a postulare la necessità di autorizzare con variante “ordinaria” anche la modifica della destinazione d’uso di un immobile di modesta entità (appena superiore a 200 mq, in ipotesi).

E ciò in disparte la constatazione che, sino a quel momento, negli anni, il “Palazzo del Lavoro” era stato adibito agli usi più disparati (ad es. per il Ramadan) e ben più impattanti sul carico urbanistico rispetto all’utilizzo commerciale.

Con il terzo motivo di merito l’appellante società ha censurato i capi della gravata sentenza che avevano annullato la delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/2009, erroneamente definita dal primo giudice “ di approvazione del permesso di costruire convenzionato”.

La detta delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/2009, aveva soltanto, qual oggetto, l’approvazione dello schema di convenzione finalizzato, successivamente, ad ottenere il rilascio del permesso di costruire.

Essa, quindi, neppure spiegava efficacia lesiva; erano state rispettate tutte le prescrizioni contenute nella legislazione regionale; la circostanza stigmatizzata dal Tar per cui in sede di approvazione della Variante 190 era stato espunto il richiamo al “centro commerciale naturale” contenuto nella delibera di adozione della Variante 190 nasceva unicamente dalla necessità di tenere distinta la natura “urbanistica” della Variante da quella “commerciale” della detta dizione.

L’insediamento rispettava in pieno il concetto di “centro commerciale naturale” previsto nella DCR 563/1999 ed il riferimento contenuto nella avversata sentenza alla “spontaneità” che doveva contraddistinguere tale centro non poteva certamente essere inteso nel senso di necessaria preesistenza.

Con atto di intervento ad opponendum e successiva memoria si sono costituiti nell’odierno giudizio di appello taluni esercenti commerciali operanti nel comune di Moncalieri i quali hanno chiesto la reiezione del gravame principale proposto dalla Pentagramma Piemonte SPA perché infondato.

Pentagramma Piemonte SPA ha depositato una memoria chiedendo la declaratoria di inammissibilità dell’intervento predetto, in quanto, violando il disposto di cui all’art. 50 del cpa gli interventori non avevano chiarito né la propria legittimazione né l’interesse che l’intervento in causa tendeva a soddisfare e non soddisfaceva neppure i requisiti di ammissibilità previsti ex art. 28 comma 2 del cpa.

Con decreto presidenziale n. 4160/2012 è stata accolta l’istanza di misure cautelari provvisorie e per l’effetto è stata sospesa l’esecutività della sentenza appellata sino alla discussione della camera di consiglio del 6 novembre 2012.

Alla camera di consiglio del 6 novembre 2012 fissata per la delibazione della istanza di sospensione della esecutività della sentenza gravata la trattazione della domanda cautelare è stata differita alla camera di consiglio del 20 novembre 2012 al fine di rispettare i termini di difesa in sede camerale, e sull’accordo delle parti è stata prorogata sino a detta data la efficacia del decreto cautelare suindicato.

Alla camera di consiglio del 20 novembre 2012, su concorde domanda delle parti la trattazione dell’incidente cautelare è stato differito alla udienza di merito del 12 marzo 2012 lasciando immutata la situazione fattuale e giuridica sino a quel momento sussistente.

Alla odierna pubblica udienza del 12 marzo 2012 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio

Ricorso n. 7350/2012;

L’ amministrazione comunale di Torino, già resistente nel giudizio di primo grado, ha proposto una articolata critica alla sentenza suindicata chiedendone la riforma, prospettando censure in larga parte coincidenti con quelle proposte dalla società Pentagramma nell’ambito del ricorso in appello n. 7348/2012 cui si è prima fatto riferimento.

In particolare, quanto alla asserita illegittimità della omessa sottoposizione della variante n. 190 alla Vas obbligatoria si è sostenuta la irricevibilità per tardività del gravame laddove non era stata tempestivamente impugnata la determina dirigenziale di esclusione n. n. 277 dell’11.9.2009; nel merito, si è sostenuto che la variante non aveva ab origine la finalità di consentire l’apertura di un “centro commerciale ex d.Lgs n. 114/1998 per cui la Vas non sarebbe stata necessaria.

In ogni caso, l’area interessata dalla variante n. 190 era complessivamente pari a 60.000 mq; ma l’unico edificio interessato aveva una impronta a terra ben minore, pari a mq 22.240.

Si verteva nel campo delle “piccole aree a livello locale”, in quanto la soglia di tutela ambientale di aree ricadenti nel contesto urbano era pari a 10 ettari e quella per cui è causa, anche ove omnicomprensivamente considerata, era pari a 6 ettari (60.000 mq).

Neppure era stata violata la disciplina regionale sul punto (che, anzi, aveva fornito una specificazione del concetto di “centro commerciale” con DCR n. 211-34747 del 30 luglio 2008 perfettamente rispettata dal Comune di Torino.

Parimenti, quanto alla previsione della realizzazione dei parcheggi, la sentenza, viziata da ultrapetizione, non aveva tenuto conto che trattavasi di una pluralità di parcheggi e non di un unico parcheggio.

Il Comune ha inoltre sostenuto che ci si trovava al cospetto di una variante esattamente qualificata “parziale” (con ciò prospettando argomenti di doglianza identici a quelli evidenziati dalla società Pentagramma) ed ha contestato la declaratoria di illegittimità della delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/2009 in quanto il primo giudice aveva obliato gli esatti contorni della nozione di “centro commerciale naturale” siccome definito ex art. 4 lett. c dell’allegato C alla variante n. 160.

Si è costituita nell’odierno giudizio di appello, depositando un ricorso ad adiuvandum Corio Italia Spa che, nel chiarire di essersi resa promissaria acquirente del “Palazzo del Lavoro” di Torino da parte di Pentagramma Piemonte Spa con scrittura privata del 23 dicembre 2010, ha chiesto di accogliere l’appello proposto dall’amministrazione comunale di Torino per ragioni analoghe a quelle prospettate nel detto atto di gravame.

L’appellata 8 Gallery Immobiliare S.r.l., già ricorrente in primo grado vittoriosa ha depositato una articolata memoria chiedendo di respingere l’appello dell’amministrazione comunale (e conseguentemente l’appello ad adiuvandum di Corio Italia Spa) perché infondato.

Ha fatto presente che il proprio ricorso di primo grado era tempestivo con riferimento alle doglianze relative all’omesso espletamento della Va,s in quanto, da un lato, veniva impugnata una variante dal Prg e, per altro verso, la verifica di esclusione non poteva riguardare le ipotesi di obbligatorio espletamento della Vas.

A tutto concedere un obbligo di impugnativa immediata della determina dirigenziale di esclusione n. n. 277 dell’11.9.2009 avrebbe potuto ritenersi ravvisabile allorchè si fosse sostenuto (soltanto) che la determina era affetta da vizi propri, per non essersi disposta la Vas “facoltativa” pur essendovene la necessità.

Posto che il dirigente, invece, non aveva il potere di escludere la Vas nei casi in cui questa era obbligatoria ex lege, nessuna preclusione poteva discendere dalla omessa tempestiva impugnazione della determina di esclusione n. 277 dell’11.9.2009.

Parimenti il ricorso di primo grado era ricevibile anche con riferimento alle altre censure, in quanto la delibera di adozione della variante n. 160 non era lesiva per l’odierna appellata posto che ivi non veniva precisata la destinazione del “Palazzo del lavoro”.

Nel merito, ha chiesto la declaratoria di inammissibilità di tutti i documenti “nuovi” prodotti dal Comune di Torino e dall’appellante ad adiuvandum Corio Italia ex art. 104 comma 2 del cpa (ivi compresi i documenti che quest’ultima aveva inserito nel proprio appello).

Ai sensi dell’art.101 cpa ha poi riproposto tutte le censure già contenute nel ricorso di primo grado e nei ricorsi per motivi aggiunti proposti in primo grado ed assorbite dal primo giudice.

Con decreto presidenziale n. 4159/2012 è stata accolta l’istanza di misure cautelari provvisorie e per l’effetto è stata sospesa l’esecutività della sentenza appellata sino alla discussione della camera di consiglio del 6 novembre 2012.

Alla camera di consiglio del 6 novembre 2012 fissata per la delibazione della istanza di sospensione della esecutività della sentenza gravata la trattazione della domanda cautelare è stata differita alla camera di consiglio del 20 novembre 2012 al fine di rispettare i termini di difesa in sede camerale, e sull’accordo delle parti è stata prorogata sino a detta data la efficacia del decreto cautelare suindicato.

Alla camera di consiglio del 20 novembre 2012, su concorde domanda delle parti la trattazione dell’incidente cautelare è stato differito alla udienza di merito del 12 marzo 2012 lasciando immutata la situazione fattuale e giuridica sino a quel momento sussistente.

Alla odierna pubblica udienza del 12 marzo 2012 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.I suindicati ricorsi devono essere riuniti in quanto diretti a gravare la medesima sentenza.

2.Essi sono infondati e meritano di essere respinti.

2.1. Ritiene il Collegio, in via preliminare rispetto allo scrutinio delle censure di merito, di vagliare le numerose censure di natura processuale prospettate dalle parti.

2.2. Verrà quindi esaminata, per prima – afferendo alla legittimazione processuale alla partecipazione all’odierno giudizio d’appello – la questione della ammissibilità degli interventi spiegati dalla Società Corio e dai Signori Buratti più altri.

Successivamente verranno esaminate le censure volte a postulare la originaria inammissibilità del mezzo di primo grado prospettate dalle odierne parti appellanti; in ultimo, verranno esaminate le doglianze volte a sostenere la ricorrenza del vizio di ultrapetizione con riferimento ai capi demolitori della gravata decisione.

3. Quanto alla prima problematica, ritiene il Collegio che nessun dubbio possa sussistere sulla ammissibilità dell’intervento di Corio Spa in quanto promissaria acquirente dell’immobile per cui è causa.

Quanto all’intervento ad opponendum spiegato dai Signori Buratti ed altri, quali titolari di esercizi commerciali ubicati nel Comune di Moncalieri in area limitrofa a quella dove insiste l’edificio per cui è causa ed interessati alle modifiche della viabilità relative alla c.d. “rotonda Maroncelli, ritiene il Collegio che l’eccezione sia fondata e l’intervento ad opponendum spiegato nell’odierno giudizio di appello non sia ammissibile (ciò sebbene le prospettazioni ivi contenute ricalchino, in larga parte, le doglianze già contenute nel mezzo di primo grado ed accolte dal primo giudice, il che priva di effetto pratico, quantomeno avuto riguardo alle tematiche esaminabili dal Collegio l’estromissione dal processo dei detti intervenienti).

Come di recente affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato “nel processo amministrativo la nuova disciplina introdotta dall’art. 50 CPA (D.Lgs. n. 104/2010) prevede, sul piano strettamente procedurale, che: c) l’atto di intervento è proposto al giudice davanti al quale pende la controversia principale; d) l’atto deve contenere le generalità dell’interventore, le ragioni su cui si fonda, la sottoscrizione della parte, il patrocinio del difensore e la relativa procura (ex artt. 22, comma 2, e 24, CPA); e) l’ intervento è notificato a tutte le altre parti, costituite e non, nel giudizio principale; f) il deposito dell’atto di intervento è sottoposto ad un duplice, inderogabile, limite temporale: a pena di decadenza deve essere depositato nella segreteria del giudice adito entro trenta giorni dalla notificazione e, comunque, non oltre trenta giorni prima dell’udienza fissata per la discussione del ricorso. Ne deriva che la tardività del deposito non è sanabile ex post, per acquiescenza delle controparti, in quanto i termini perentori sono espressivi di un precetto di ordine pubblico processuale essendo posti a presidio del contraddittorio e dell’ordinato lavoro del giudice, a mente del combinato disposto degli artt. 74, comma 1, e 88, comma 2, lett. d), CPA “(Cons. Stato Sez. V, 05-11-2012, n. 5591, ma anche Cons. Stato Sez. V, 22-03-2012, n. 1640).

Si è parimenti fatto risaltare che “la nuova disciplina introdotta dagli artt. 28, co. 2, e 50 d.lgs. n. 104/2010 prevede che chiunque non sia parte necessaria del giudizio principale e non sia decaduto dalle relative azioni (evenienza questa che non concerne l’intervento adesivo dipendente), possa intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova. Si stabilisce, inoltre, sul piano strettamente procedurale che: a) l’atto di intervento è proposto al giudice davanti al quale pende la controversia principale; b) l’atto deve contenere le generalità dell’interventore, le ragioni su cui si fonda, la sottoscrizione della parte, il patrocinio del difensore e la relativa procura (ex artt. 22, co. 2, e 24, d.lgs. n. 104 cit.); c) l’intervento è notificato a tutte le altre parti, costituite e non, nel giudizio principale; d) il deposito dell’atto di intervento è sottoposto ad un duplice, inderogabile, limite temporale: a pena di decadenza deve essere depositato nella segreteria del giudice adito entro trenta giorni dalla notificazione e, comunque, non oltre trenta giorni prima dell’udienza fissata per la discussione del ricorso. Né è di ostacolo alla configurabilità dell’ intervento adesivo dipendente la particolare natura del giudizio di ottemperanza all’interno del quale si innesta.(Cons. Stato Sez. IV, 30-11-2010, n. 8363).

La semplice lettura dell’atto di intervento proposto dai signori Buratti ed altri chiarisce che esso non soddisfa le condizioni enucleate dal citato art. 50 del cpa, in quanto, a tacer d’altro, esso non indica le ragioni sulle quali si fonda.

Né può affermarsi che tale lacuna potrebbe essere integrata dalla successiva memoria depositata dagli intervenienti: quest’ultima effettivamente chiarisce esaustivamente quali siano i presupposti legittimanti posti a fondamento dell’intervento (quelli dei quali si è prima dato sinteticamente conto da parte del Collegio).

Se anche essa si potesse considerare atto integrativo, non è stata notificata alle controparti e non può pertanto valere, se anche fosse stata depositata nei termini previsti dal combinato disposto degli art. 50 e 45 del cpa, ad eterointegrare l’atto di intervento.

In sintesi: l’atto di intervento, seppur tempestivo, è privo dei prescritti requisiti di legge ed incompleto; la memoria, colma dette lacune e potrebbe valere, in via teorica, a superarle (l’atto di intervento non richiede formule sacramentali, e ben potrebbe essere spiegato direttamente in forma di memoria). Senonchè essa non risulta notificata, e pertanto non può produrre il detto effetto sanante.

In accoglimento dell’eccezione proposta dall’appellante Pentagramma Piemonte SPA dalla declaratoria di inammissibilità discende la estromissione dal processo dei suddetti interventori.

3.1. Vanno adesso esaminate le doglianze volte a prospettare la originaria inammissibilità/irricevibilità per tardività di alcune doglianze contenute nel mezzo di primo grado ed accolte dal primo giudice.

3.2. Sia Pentagramma Piemonte che il Comune di Torino sostengono che dovevano essere dichiarate inammissibili – perchè tardive – le doglianze con le quali, in primo grado, era stata eccepita la illegittimità della avversata Variante n. 190 per omessa effettuazione della Vas.

La omessa tempestiva impugnazione della determina di esclusione della Vas n. 277 dell’11.9.2009 (provvedimento conclusivo di un sub procedimento avente natura autonoma ed immediatamente lesivo) renderebbe tardiva la censura proposta successivamente avverso la variante n. 190.

3.2.1. Nessuna delle articolazioni della doglianza persuade il Collegio.

Invero, avuto riguardo al petitum contenuto nel ricorso di primo grado, la odierna appellata aveva sostenuto che la variante dovesse essere sottoposta a Vas obbligatoria. E tale tesi è stata recepita dal primo giudice.

Nei casi in cui la Vas sia obbligatoria non v’è luogo alla verifica di esclusione, come meglio si chiarirà nel prosieguo della presente esposizione: né in sede di verifica di esclusione potrebbe rendersi facoltativo l’espletamento della Vas laddove invece la legge ne imponga l’espletamento.

Posto che questo era il contenuto della censura (art. 6 comma 2 lett. a del dLgs. n. 152/2006:“ Fatto salvo quanto disposto al comma 3, viene effettuata una valutazione per tutti i piani e i programmi: a) che sono elaborati per la valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente, per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, l’area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II, III e IV del presente decreto;”) non si vede perché l’appellata avrebbe dovuto tempestivamente impugnare una verifica di esclusione che, in tesi, non avrebbe neppure dovuto svolgersi (ovvero non avrebbe potuto che approdare alla soluzione per cui la Vas avrebbe dovuto essere imprescindibilmente espletata).

Quanto sinora chiarito assume un rilievo troncante ai fini della reiezione della censura.

3.2.2. Ma v’è di più. Ritiene il Collegio di dovere precisare che, se anche si vertesse nel campo della Vas “eventuale” (ai sensi del comma 3 della sopracitata disposizione di cui all’art.6 del dLgs n. 152/2006 : “ Per i piani e i programmi di cui al comma 2 che determinano l’uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei piani e dei programmi di cui al comma 2, la valutazione ambientale è necessaria qualora l’autorità competente valuti che producano impatti significativi sull’ambiente, secondo le disposizioni di cui all’articolo 12 e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell’area oggetto di intervento”) e ci si dolesse (soltanto)di eventuali errori/omissioni specificamente attingenti la “scelta” di non procedere alla effettuazione della detta valutazione, il Collegio non potrebbe concordare con la tesi esposta nei riuniti appelli.

Il Collegio conosce le pronunce citate dalle parti appellanti a sostegno del loro convincimento (T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, 16-02-2011, n. 265 Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-03-2009, n. 1213) ed è consapevole della circostanza che le stesse, sul solco di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la decisione n.221/2010 abbiano “costruito” la fase di verifica di esclusione come un sub procedimento autonomamente impugnabile in quanto già lesivo.

Senonchè le dette pronunce, da un canto hanno affermato la impugnabilità dell’ esito

della verifica di esclusione senza però affermare che la omessa impugnazione precluderebbe di sollevare la censura con riferimento agli atti successivamente approvati cui la Vas era sottesa.

Secondariamente, anche laddove hanno affermato tale “corollario” (si veda in particolare la decisione del Tar del Veneto sopramenzionata) hanno perimetrato il novero dei soggetti cui era applicabile il detto effetto preclusivo restringendolo a coloro i quali avevano partecipato alla conferenza di servizi culminata con la determinazione di esclusione.

3.2.1. Ad avviso del Collegio, questa in ultimo enunciata è l’unica conseguenza “preclusiva”che è possibile fare discendere dall’ affermata autonomia della fase procedimentale della verifica di esclusione.

Invero la valutazione ambientale strategica (VAS) di cui alla Direttiva 42/2001/Ce del Parlamento europeo, è volta a garantire che gli effetti sull’ambiente di determinati piani e programmi siano considerati durante l’elaborazione e prima dell’adozione degli stessi, così da anticipare nella fase di pianificazione e programmazione quella valutazione di compatibilità ambientale che, se effettuata (come avviene per la valutazione di impatto ambientale) sulle singole realizzazioni progettuali, non consentirebbe di compiere un’effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la localizzazione degli insediamenti e, in generale, per stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le modalità di utilizzazione del territorio.

Detta valutazione, si rende necessaria in armonia con il principio di “precauzione” direttamente discendente dal Trattato Ue che, per ciò solo, costituisce criterio interpretativo valido in Italia, a prescindere da singoli atti di recepimento delle direttive in cui esso si compendia (per una definizione di quest’ultimo: “il cd. “principio di precauzione” fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione.”- T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 20-01-2012, n. 665-; “la regola della precauzione può essere considerata come un principio autonomo che discende dalle disposizioni del Trattato UE. L’applicazione del principio di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali. “-T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 20-01-2012, n. 663-).

Sarebbe del tutto incongruo, ad avviso del Collegio, che soggetti che non abbiano partecipato alla fase di verifica di esclusione, pur legittimati ad insorgere (in virtù del criterio della vicinitas, ovvero come nel caso oggetto della odierna delibazione giudiziale, anche in virtù della propria particolare posizione di controinteresse discendente dalla titolarità di una attività “rivale” rispetto a quella in corso di autorizzazione) avverso gli atti successivamente adottati prescindendo dalla effettuazione della Vas vedano preclusa la propria legittimazione a denunciare il detto vizio a cagione della omessa impugnazione della delibera di esclusione.

3.2.2.A tacer d’altro, infatti, non è assolutamente noto, al momento in cui viene adottata la determinazione di esclusione, se effettivamente il procedimento proseguirà sino all’adozione del piano o programma: è quest’ultimo, infatti, che spiega affetto lesivo nei confronti del soggetto legittimato a dolersi ed insorgere giudizialmente.

La preclusione alla denuncia del vizio della omessa effettuazione della Vas “discrezionale” determinata dalla omessa tempestiva impugnazione della detta determina di esclusione, priverebbe di tutela l’interesse sostanziale e generale, pur a fronte di un atto negativo dal quale il soggetto leso è rimasto del tutto estraneo.

3.3. Non miglior sorte merita l’eccezione di irricevibilità/inammissibilità del mezzo di primo grado laddove inteso a censurare la Variante n. 190 a cagione della omessa impugnazione della variante n. 160.

La variante n. 160, infatti (dedicata alla determinazione dei criteri di programmazione per l’insediamento delle attività commerciali nel Comune di Torino) aveva reso applicabili all’area i parametri previsti per gli addensamenti A2, ma non aveva inciso sulla destinazione d’uso dell’immobile per cui è causa (sino a quel momento classificato in zona F destinata ad attrezzature di interesse collettivo).

La lesività della azione amministrativa, in capo alla appellata, non poteva discendere dalla previsione della delibera di C.C. n. 36 del 2 marzo 2009 (con cui venne approvata la Variante 160 di adeguamento del PRG ai criteri per l’insediamento delle attività commerciali), di guisa che nessuna preclusione può discendere dalla omessa tempestiva impugnazione di quest’ultima.

3.4. Quanto, infine, alla eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti volti ad avversare la delibera della Giunta Comunale 15.11.2011 n. 6241/2009, escluso il vizio di “inammissibilità derivata” per le ragioni sinora esposte, neppure persuade la eccezione con la quale si sostiene la carenza di interesse dell’appellata.

Può concordarsi con la circostanza che – trattandosi di atto approvativo della convenzione sottesa al futuro rilascio del permesso di costruire – l’appellata avrebbe potuto omettere di gravare tale ultimo atto, in attesa che, conformemente a quanto ivi disposto, venisse successivamente rilasciato l’atto abilitativo all’edificazione.

Posto che, comunque, quest’ultimo costituiva conseguenza proprio dell’avvenuta approvazione della convenzione, non si ravvisa alcuna carenza di interesse nella impugnazione del detto atto, costituente indispensabile presupposto per il successivo rilascio del titolo abilitativo.

Anche detta doglianza, pertanto, va disattesa.

3.5. Merita infine di essere esaminata in via preliminare la doglianza di extrapetizione che le parti appellanti hanno formulato in riferimento a svariati capi della avversata decisione.

3.5.1. Proprio la “trasversalità” della detta doglianza, riferibile per analoghe argomentazioni a più capi della pronuncia, giustifica un esame generale e preventivo della stessa, anche al fine di evitare di ripetere volta per volta le medesime affermazioni.

Si segnala a tale proposito che, secondo le parti appellanti, il malgoverno del disposto dell’art. 112 cpc, pacificamente applicabile al processo amministrativo, emergerebbe sia laddove è stato dichiarato illegittimo l’omesso espletamento della Vas in quanto il piano prevedeva la realizzazione di imponenti parcheggi rientranti nella previsione di cui all’allegato IV al d.Lgs. n. 152/2006, sia laddove si è affermato che la variante n. 190 era stata erroneamente qualificata qual “parziale” in relazione alla previsione di cui all’art. 4 lett. a dell’art. 17 della L.R. n. 56/77.

Ciò perché, quanto al primo profilo, nel mezzo di primo grado non si faceva riferimento alcuno alla previsione progettuale dei parcheggi e, quanto al secondo angolo prospettico, perché neppure ivi era stata mai menzionata la previsione di cui all’art. 4 lett. a dell’art. 17 della L.R. 56/77.

3.5.2. Il Collegio ritiene certamente inaccoglibile detta articolazione delle doglianze.

3.5.3. Come è noto, di regola, la eccezione ex art. 112 del codice di procedura civile anche se accolta, non potrebbe condurre, all’annullamento delle statuizione gravata costituendo jus receptum (ribadito dall’attuale testo dell’art. 105 cpa) il principio per cui “l’omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa.” (Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289).Analogo principio dovrebbe valere in ipotesi di extrapetizione.

Senonchè, laddove il vizio ex art. 112 cpc sia sì grave da comportare uno stravolgimento assoluto delle regole processuali potrebbe ricorrere l’ipotesi di nullità “sostanziale”della sentenza (si veda: Consiglio Stato sez. V 19 novembre 2009 n. 7235).

In ogni caso, anche a non volere addivenire a siffatte drastiche conseguenze effettuali, dovrebbe essere annullata una sentenza demolitoria che abbia affermato la illegittimità di atti e provvedimenti in relazione a profili di censura non prospettati dalle parti originariamente ricorrenti.

3.5.4. Non ritiene tuttavia il Collegio che ciò sia predicabile nel caso di specie.

Va richiamato in proposito, il consolidato orientamento secondo il quale “il vizio della ultrapetizione (c.p.c., art. 112) sussiste solo quando la pronuncia giudiziale trascende i limiti oggettivi della controversia, quali risultano dalle contrapposte domande ed eccezioni delle parti. Siffatto vizio, pertanto, non è ipotizzabile rispetto alla configurazione giuridica dei termini della controversia e alle norme di diritto in base alle quali la lite deve essere decisa, rientrando nel potere-dovere del giudice il compito di inquadrare nell’esatta categoria giuridica i fatti dedotti e acquisiti al giudizio e di applicare le relative norme di legge. -Nella specie, in applicazione del riferito principio, la S.C. ha escluso che fosse incorsa in ultrapetizione la sentenza del giudice del merito che aveva accolto la domanda proposta dalla curatela fallimentare, sulla base della prospettazione della stessa curatela, quale azione revocatoria ordinaria, ancorché fosse stata invocata la tutela di cui all’art. 67 l. fall., ancorché cioè quegli stessi fatti fossero stati inquadrati come realizzanti una ipotesi di revocatoria fallimentare-.” (Cassazione civile , sez. I, 17 giugno 2009 , n. 14098 ma si veda anche, in passato “ non è affetta dal vizio di ultrapetizione la decisione di annullamento fondata sulla violazione di una disposizione di legge diversa da quella prospettata ove la formulazione della doglianza consenta al giudice di individuarne il fondamento giuridico, rientrando tra i poteri del giudice stesso la ricerca delle disposizioni che disciplinano il rapporto controverso, indipendentemente dalle indicazioni del ricorrente. “-Consiglio Stato , sez. V, 13 luglio 1992 , n. 648-).

Nel caso di specie la censura afferente alla omessa sottoposizione della variante a Vas e quella relativa alla asserita riconducibilità della variante nel novero di quelle “ordinarie” o “strutturali”, approvabili secondo il procedimento ordinario disegnato dal legislatore regionale all’art. 15 della legge regionale n. n. 56/77, erano state certamente formulate nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado: armonicamente all’orientamento giurisprudenziale sopraindicato, non pare possa ravvisarsi extrapetizione nella condotta del giudice che ha applicato la disposizione di legge asseritamente violata enucleando le ipotesi in cui il precetto non appariva rispettato (si veda: “nel valutare la fondatezza di una censura, è consentito al giudice amministrativo di utilizzare parametri normativi di riferimento diversi da quelli indicati dal ricorrente, purchè resti ferma l’identificazione e la qualificazione del vizio dedotto negli elementi sostanziali che lo caratterizzano; pertanto, nel caso in cui si lamenti la violazione e falsa applicazione delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico vigente quanto agli indici di cubatura e di fabbricabilità, la circostanza che il giudice abbia assunto a fondamento della propria decisione misure diverse non costituisce vizio di ultrapetizione o extrapetizione.”Cons. Stato Sez. V, 01-06-2001, n. 2967; “Non sussiste vizio di ultra o di extrapetizione allorchè il giudice, attenendosi rigorosamente ai fatti e agli altri elementi oggettivi esposti dall’attore, individui la disciplina regolatrice della concreta fattispecie in norme diverse da quelle invocate dalle parti e sulla base di tali norme accolga o rigetti la domanda, senza operare alcun mutamento dei “petitum” o della “causa petendi” dedotti.”-Cass. civ. Sez. I, 11-06-1993, n. 6552- ).

La causa petendi ed il petitum erano state articolate nel mezzo di primo grado nei termini poi accolti dal primo giudice: è ben vero che ulteriore – e non secondaria – censura riposava nella contraddizione logica dell’operato dell’amministrazione comunale laddove questo aveva escluso la Vas e poi “accompagnava” la valutazione preliminare di esclusione da una messe imponente di prescrizioni (sicchè, in tesi, appariva inspiegabile perché, a fronte di tali problematiche non si fosse stabilito di sottoporre il progetto a Vas).

Ma è altresì incontestabile che la tesi avanzata da parte originaria ricorrente fosse incentrata sulla necessità ex lege di sottoporre a Vas la variante.

Il primo giudice quindi, attraverso l’esame delle disposizioni di legge che presiedevano alle fattispecie dedotte ha accolto il ricorso, non discostandosi dal petitum originario, e la “causale demolitoria” riferibile alla previsione del parcheggio in quanto contenuta espressamente nella disposizione applicata era ben sussumibile nella cognizione giudiziale.

Anche detta doglianza deve essere pertanto disattesa,e può conseguentemente, procedersi all’esame delle doglianze di merito.

4. La prima censura da esaminare afferisce alla problematica della necessità – o meno- di sottoporre a Vas la più volte citata variante n. 190.

Si rimarca in proposito che secondo la espressa previsione di cui all’art. 5 del d. Lgs. n. 152/2006 “valutazione ambientale di piani e programmi, nel seguito valutazione ambientale strategica, di seguito VAS: il processo che comprende, secondo le disposizioni di cui al titolo II della seconda parte del presente decreto, lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l’elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli esiti delle consultazioni, l’espressione di un parere motivato, l’informazione sulla decisione ed il monitoraggio”.

Costituisce jus receptum, in giurisprudenza, il principio per cui la V.A.S. (valutazione ambientale strategica) introdotta dal D.Lgs. n. 152 del 2006 è una valutazione di compatibilità ambientale relativa ai piani e ai programmi e non già ai singoli progetti, per i quali il legislatore ha predisposto il diverso strumento del procedimento di valutazione impatto ambientale -cd. V.I.A.-. (Cons. Stato Sez. IV, 04-12-2009, n. 7651).

Stabilisce in proposito l’art. 6 del Lgs. n. 152/2006 (del quale appare conducente riportare per esteso il testo dei primi due commi) che “la valutazione ambientale strategica riguarda i piani e i programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale.

Fatto salvo quanto disposto al comma 3, viene effettuata una valutazione per tutti i piani e i programmi:

a) che sono elaborati per la valutazione e gestione della qualita’ dell’aria ambiente, per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, l’area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II, III e IV del presente decreto;

b) per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalita’ di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione d’incidenza ai sensi dell’articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni.”.

Come è agevole riscontrare, il comma 3 della predetta disposizione, si ricollega al comma secondo prima citato, specificando/modificandone le prescrizioni, in quanto stabilisce che: “Per i piani e i programmi di cui al comma 2 che determinano l’uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei piani e dei programmi di cui al comma 2, la valutazione ambientale e’ necessaria qualora l’autorita’ competente valuti che producano impatti significativi sull’ambiente, secondo le disposizioni di cui all’articolo 12 e tenuto conto del diverso livello di sensibilita’ ambientale dell’area oggetto di intervento.”.

Il concetto di “piccola area di livello locale” si lega al comma secondo quindi; e poiché ivi non è direttamente definito il concetto opposto di “non piccola area di livello locale” non facendosi riferimento ad alcun dato dimensionale, ad avviso del Collegio il referente corrispondente va individuato con riguardo alla prescrizione, contenuta sempre al comma 2 della citata disposizione, che richiama gli allegati II, III, IV del decreto.

Nell’allegato IV, in particolare, al punto 7 (“progetti di infrastrutture”) è dato riscontrare il correlativo referente del concetto di “piccole aree a livello locale” mancante nel testo del comma 2 laddove sono stati indicati (quale oggetto di obbligatoria sottoposizione a Vas):

“a) progetti di sviluppo di zone industriali o produttive con una superficie interessata superiore ai 40 ettari;

b) progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ettari; progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari; costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59″; parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto;”.

L’art. 12 del citato decreto, a propria volta richiamato dal comma 3 prevede che: “nel caso di piani e programmi di cui all’articolo 6, commi 3 e 3-bis, l’autorita’ procedente trasmette all’autorita’ competente, su supporto informatico ovvero, nei casi di particolare difficolta’ di ordine tecnico, anche su supporto cartaceo, un rapporto preliminare comprendente una descrizione del piano o programma e le informazioni e i dati necessari alla verifica degli impatti significativi sull’ambiente dell’attuazione del piano o programma, facendo riferimento ai criteri dell’allegato I del presente decreto.

L’autorita’ competente, in collaborazione con l’autorita’ procedente, individua i soggetti competenti in materia ambientale da consultare e trasmette loro il documento preliminare per acquisirne il parere. Il parere e’ inviato entro trenta giorni all’autorita’ competente ed all’autorita’ procedente.

Salvo quanto diversamente concordato dall’autorita’ competente con l’autorita’ procedente, l’autorita’ competente, sulla base degli elementi di cui all’allegato I del presente decreto e tenuto conto delle osservazioni pervenute, verifica se il piano o programma possa avere impatti significativi sull’ambiente.

L’autorita’ competente, sentita l’autorita’ procedente, tenuto conto dei contributi pervenuti, entro novanta giorni dalla trasmissione di cui al comma 1, emette il provvedimento di verifica assoggettando o escludendo il piano o il programma dalla valutazione di cui agli articoli da 13 a 18 e, se del caso, definendo le necessarie prescrizioni.

Il risultato della verifica di assoggettabilita’, comprese le motivazioni, deve essere reso pubblico.

La verifica di assoggettabilita’ a VAS ovvero la VAS relative a modifiche a piani e programmi ovvero a strumenti attuativi di piani o programmi gia’ sottoposti positivamente alla verifica di assoggettabilita’ di cui all’art. 12 o alla VAS di cui agli artt. da 12 a 17, si limita ai soli effetti significativi sull’ambiente che non siano stati precedentemente considerati dagli strumenti normativamente sovraordinati”.

4.1.Dalla piana lettura delle disposizioni summenzionate emerge quindi che l’art. 6 distingue la fattispecie della Vas obbligatoria -comma 2 della norma- rispetto a quella di cui al successivo comma terzo e che laddove si ravvisi la situazione normata al comma 3 si dà luogo a verifica di compatibilità, disciplinata dal successivo art. 12, mentre, laddove si verta nella fattispecie descritta al secondo comma si impone puramente e semplicemente l’obbligo di esperire la Vas.

Come si è fatto presente allorchè è stata respinta l’eccezione di irricevibilità del mezzo di primo grado, ove si sostenga che doveva puramente e semplicemente esperirsi la Vas in quanto imposta dal secondo comma della citata disposizione di cui all’art. 6 (non essendovi spazio per una “valutazione in concreto” che è invece normata dal successivo comma 3 della predetta disposizione) non rileva l’esito della verifica di esperibilità della Vas, né la omessa impugnazione della determina negativa.

La asserita incontestabilità della determina negativa non può precludere il rilievo del vizio di violazione di legge per non avere effettuato la vas laddove non v’era spazio alcuno per la verifica di esperibilità.

4.2. Rileva ancora il Collegio che un’altra e pregnante conseguenza si ricava dalla combinata disamina dei due precetti contenuti nel citato art. 6 ai commi 2 e 3 e della disposizione richiamata contenuta nel’allegato .

La relazione interferenziale tra la disposizione ci cui al comma 2 dell’art. 6 (che indica le ipotesi di vas obbligatoria) e quella di cui al successivo art. 3 è soltanto parziale.

Essa attiene unicamente ai piani e i programmi di cui al comma 2 che determinano l’uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei piani e dei programmi di cui al comma 2.

Se, quanto ai limiti dimensionali, la Vas è obbligatoria per aree superiori a 40 ettari (o 10 ettari per la fattispecie devoluta all’esame del Collegio), ne deriva di necessità che ciò che è dimensionalmente inferiore può rientrare nel concetto di “piccola area locale” (per cui non è obbligatoria la predetta procedura di Vas).

Si potrebbe a lungo disquisire sulla felicità della espressione aggettivante “piccola” laddove utilizzata per aree di poco inferiori a 10 ettari e quindi consistentemente estese: ma certo non si potrebbe sostituire per tal via in sede giudiziale il proprio convincimento a quello legislativo, affermando che se un’area è di poco inferiore a 10 ettari essa non è “piccola” e quindi potrebbe essere considerata assoggettata a vas obbligatoria perché in tal modo si svuoterebbe di contenuto il referente dimensionale richiamato ex lege.

4.2.1. Ciò che preme rilevare al Collegio, tuttavia, non riposa nella non condivisibilità sul punto dell’affermazione del primo giudice, che ha ritenuto “l’area non piccola” senza fare riferimento al referente dimensionale contenuto nella disposizione predetta ed omettendo di considerare che l’area presa in esame dalla variante n. 190 in quanto inferiore a 10 ettari (era infatti pari a 60.000 mq) avrebbe potuto rientrare nel concetto di “piccola area a livello locale” che giustificava la tesi della sottoposizione a Vas “eventuale” (soltanto laddove, cioè, per rifarsi ai termini utilizzati dal Legislatore delegato al comma 3 dell’art. 6 più volte citato il piano o programma valutando “produca impatti significativi sull’ambiente, secondo le disposizioni di cui all’articolo 12 e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell’area oggetto di intervento”).

Detto errore, infatti, è del tutto irrilevante (ed al contempo non sono decisive le doglianze avanzate dal Comune di Torino incentrate sulla circostanza che l’area in esame potesse essere considerata “piccola area a livello locale”) perchè il precetto dimensionale è soltanto uno dei referenti contenuti nella disposizione di cui all’allegato IV, in particolare, al punto 7 (“progetti di infrastrutture”).

Ivi infatti, si fa riferimento ad una serie equiordinata di ipotesi, ricorrendo le quali si deve fare luogo obbligatoriamente a Vas, delle quali, certamente, alcune non sono assolutamente legate da alcun rapporto di interferenza con il concetto di “piccola area a livello locale”: alla lett. b della citata disposizione espressamente richiamata dal comma 2 dell’art. 6 che impone la Vas obbligatoria, infatti, si rinviene la seguente espressione, già poco prima riportata per esteso: “progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ettari; progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari; costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59″; parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto”.

Se la lettura del Collegio è corretta, quindi – e non pare ne possano essere prospettate di diverse-, allorchè si ipotizzi la “costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 ” ovvero di “parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto” neppure si pone la problematica se essi implichino o meno l’uso di piccole aree a livello locale, che riguarda tutte le altre possibili ipotesi di costruzione di immobili diversi da quelli in ultimo citati: in dette due evenienze in ultimo citate (“costruzione di centro commerciale” e “parcheggio d’uso pubblico con capacità superiore a 500 posti auto”) la Vas è senz’altro obbligatoria, quale che sia l’area interessata.

E – per chiudere sul tema- la previsione è certamente logica: sia i centri commerciali che i parcheggi, infatti, al di la della struttura intrinseca (variamente impattante) dei medesimi, provocando l’afflusso di numerosi soggetti nella area prescelta per la loro erezione, impongono (iuris et de iure ad avviso del Legislatore) problematiche di valutazione dell’impatto sull’ambiente che prescindono dall’ampiezza dell’area interessata dalla modifica.

4.2.2. Se così, per rispondere al quesito che costituisce l’essenza della dedotta doglianza (la variante n. 190, avuto riguardo al suo contenuto, doveva o meno essere soggetta a Vas?) la problematica deve prescindere dalla questione relativa alla ampiezza dell’area (rectius: è indifferente che l’area interessata potesse effettivamente rientrare nel concetto di “piccola area a livello locale”) e l’interrogativo deve vertere su una distinta questione: la variante n. 190 prevedeva la “costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 ” ovvero di “parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto” ?

Dalla risposta a tale quesito, – che le appellanti assumono essere negativa – discende l’accoglimento o meno delle doglianze sul punto.

4.3. Il Collegio non condivide in proposito le censure prospettate dalle appellanti.

4.3.1. Quanto alla previsione relativa ai parcheggi (e si è già in premessa chiarito il motivo per cui non si ravvisa sul punto alcuna extrapetizione della gravata decisione), sostanzialmente le difese delle appellanti possono scomporsi in due distinte affermazioni.

Si è detto sul punto, da un canto, che la variante n. 190 non prevedeva direttamente l’edificazione dei parcheggi e la quantificazione dei medesimi, ma “rinviava” ad un successivo momento (id est: la stipula della convenzione) tale profilo.

Inoltre, si è rilevato che non trattasi di un unico parcheggio ma di diversi parcheggi interrati, e che comunque stante la previsione della convenzione, dei circa 900 posti auto ricavabili soltanto 450 sarebbero stati destinati ad uso pubblico, per cui non si rientrerebbe nella previsione di cui al citato allegato al d.Lgs n. 152/2006 (si veda in particolare pag 16 del ricorso in appello proposto da Pentagramma Piemonte SPA).

4.3.2. Entrambe le tesi sostenute nei riuniti appelli non sono condivisibili.

4.3.3. Quanto alla prima, essa assume ad avviso del Collegio, quasi una portata “confessoria” e va certamente disattesa.

Come esattamente rilevato dal primo giudice, ratio, impostazione, e logica della previsione normativa relativa all’espletamento della Vas (che, lo si ribadisce, riguarda piani e programmi, e non singoli progetti) sarebbe radicalmente frustrata laddove l’espletamento della stessa fosse precluso a cagione della indeterminatezza del piano in via di approvazione, ed a cagione della circostanza che la previsione di dettaglio fosse differita ad un momento successivo.

Nella impugnata decisione questo concetto è stato espresso con esemplare chiarezza, allorchè il primo giudice ha rimarcato che, da un canto, la variante 190 obbligava comunque alla realizzazione di parcheggi ad uso pubblico in misura non inferiore a 20.000 mq, superficie questa idonea a contenere almeno 500 posti auto (come si desume dalla lettura della bozza di convenzione, ove si prevede la realizzazione di 900 posti auto su una superficie di 25.200 mq) e, sotto altro profilo, (si riporta testualmente il passaggio motivazionale di interesse contenuto nella decisione gravata) “che laddove un atto di pianificazione consenta la realizzazione di progetti da sottoporre a VIA obbligatoria (e cioé quelli di cui agli allegati II, III e IV del D. Lv.o 152/06), la VAS non può essere omessa sulla mera considerazione che il piano imprime una destinazione generica circa la cui attuazione nulla si sa di preciso. Una simile interpretazione dell’articolo 6 comma 2 lett. a) del D. L.vo 152/06 frustra all’evidenza l’intento del legislatore nazionale e comunitario di pervenire a scelte strategiche e politiche più consapevoli, supportandone il processo decisionale con l’acquisizione di elementi di giudizio più precisi . La VAS implica poi il coinvolgimento del pubblico e perciò consente di anticipare la fase del dialogo tra opinione pubblica ed istituzioni e di prevenire forme organizzate di opposizione in occasione di successiva attuazione del piano.

Il Collegio é pertanto dell’opinione che la VAS debba essere obbligatoriamente effettuata in tutti i casi in cui si debbano approvare atti di pianificazione territoriale che consentano di realizzare progetti sottoposti a VIA obbligatoria, indipendentemente dalla puntualità e dalla specificazione delle relative previsioni ed ancorché la realizzazione di siffatti progetti costituisca una mera eventualità”.

Il Collegio condivide integralmente tale prospettazione che è l’unica che consente di non “svuotare” la previsione normativa della obbligatorietà della Vas attraverso il semplice espediente di rinviare ad atti successivi e puntuali la indicazione delle opere interessate dal progetto.

E d’altro canto analogo modus comportamentale è stato a più riprese predicato, in passato, dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo il quale (Cons. Stato, VI, 31 gennaio 2007, n.370), è principio acquisito quello per cui la rinnovazione del giudizio di compatibilità ambientale è necessario quando le varianti progettuali determinino la costruzione di un intervento significativamente diverso da quello già esaminato. Se è prevista un’autorizzazione alla realizzazione di un intervento in più fasi, è necessaria una seconda VIA se nel corso della seconda fase (e quindi per esempio in sede di definitivo o di variante) il progetto può avere mostrato un nuovo impatto ambientale importante, in particolare per la sua natura, le sue dimensioni o la sua ubicazione (in termini, Cons. Stato, VI, n.2694 del 2006, principio conforme a Corte giust. Comm. eu. 4 maggio 2006, C-290/2003; Consiglio di Stato sez. IV, 7 luglio 2011, n. 4072).

In più può aggiungersi che la stessa, nel caso concreto, risulta corroborata anche dall’effettivo successivo sviluppo del procedimento amministrativo (la convenzione previde effettivamente la erezione di parcheggi interrati di quelle dimensioni).

Né dicasi che la disposizione contenuta nel citato allegato al d.Lgs n. 152/2006 possa essere intesa nel senso che il parcheggio debba essere “unico” e che sia sufficiente prevedere che l’uso pubblico dello stesso sia convenzionalmente ridotto ad una soglia inferiore a 500 posti-auto perché la disposizione non trovi applicazione.

Come esattamente posto in luce dalla gravata sentenza, e come emerge dalla ratio e dalla lettera della disposizione, “parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto;” , l’obbligo della Vas può ritenersi sussistente allorchè venga eretto un parcheggio (ed il frazionamento interno dello stesso non può ovviamente rilevare in senso escludente) che sia destinato ad uso pubblico, e che abbia una capacità complessiva superiore a 500 posti auto, ma non richiede che tutti i posti auto ricavabili debbano essere destinati ad uso pubblico, ovvero che ne siano destinati ad uso pubblico almeno 500.

Argomentando in tali termini, anche il progetto che contempli la edificazione di un parcheggio smisurato, di capacità superiore a 3000 posti auto, potrebbe eludere l’obbligo di sottoposizione dello stesso a Vas, sol che pattiziamente se ne riservi la destinazione pubblicistica ad una soglia di poco inferiore a 500 posti auto.

Ciò che deve rilevare è la destinazione generale, anche parziale, e la capacità complessiva: entrambe le condizioni risultano soddisfatte e positivamente riscontrate nel caso di specie in quanto la variante n. 190 obbligava comunque alla realizzazione di parcheggi ad uso pubblico in misura non inferiore a 20.000 mq ed è incontestabile ed incontestato che tale superficie fosse idonea a contenere almeno 500 posti auto.

Avuto riguardo anche soltanto a detta previsione può affermarsi che la variante doveva essere assoggettata a Vas obbligatoria.

Per concludere sul tema, però, è opportuno rilevare che neppure la “lettura alternativa” delle disposizioni sinora citate resa dalla difesa di parte appellante potrebbe condurre alle conseguenze da quest’ultima paventate (id est: piena legittimità della “semplice” verifica di esclusione).

Se fosse vero che tutte le previsioni di cui al comma 2 del citato art. 6 del citato articolo (vas obbligatoria) sono “condizionate” dalla prescrizione dimensionale di cui al successivo comma 3 (Vas facoltativa) si dovrebbe affermare che anche un centro commerciale od un parcheggio che determini l’uso di una “piccola area locale” potrebbe andare esente da Vas.

A questo punto, però, il referente cui ancorare il termine “piccola area locale” non sarebbe più, per sottrazione, quello di cui all’allegato IV, punto 7, prima richiamato (cui, non a caso, il comma 3 dell’art. 6 non fa affatto richiamo) e dovendo interrogarsi sulla circostanza relativa alla ricorrenza, nel caso di specie, di una “piccola area locale”, sganciata da ogni referente dimensionale normativo, non potrebbe che ribadirsi il convincimento del primo giudice secondo cui, avuto riguardo alle dimensioni dell’area interessata dalla variante, non potrebbe ricorrere il concetto di “piccola area locale”(il che comunque condurrebbe all’affermazione per cui si era in presenza di una fattispecie che imponeva l’obbligatorio espletamento della vas e non già la verifica di esclusione ex artt. 3 e 12 del citato decreto legislativo n. 152/2006).

4.4. Ciò sarebbe sufficiente a respingere i riuniti appelli (la omessa effettuazione della vas vizia in via derivata gli atti susseguenti).

Tuttavia rimarca il Collegio che anche con riguardo all’altro profilo di obbligatoria sottoposizione a Vas (erezione di un centro commerciale) ed in ordine al quale neppure è stato ipotizzata la problematica relativa ad una supposta extrapetizione della sentenza di primo grado le critiche appellatorie non colgano nel segno.

4.4.1. Come prima si è osservato, la dizione dell’allegato al d.Lvo 152/2006 è del seguente tenore: “costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59″.

4.4.2. Il D.Lgs. n. 114/1998 all’art. 4 dà del centro commerciale la seguente definizione: “media o grande struttura di vendita nella quale più esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti unitariamente”.

In passato questo Consiglio di Stato ebbe ad affermare, in senso escludente del ricorrere della fattispecie, che “non può ravvisarsi l’esistenza di un centro commerciale nel caso di due strutture che, pur caratterizzate da vicinanza, sono distinte e materialmente separate e prive di collegamenti nonché dotate ciascuna di propri servizi e destinate ad autonoma e separata gestione, risultano isolate l’una dall’altra per l’esistenza di una alta recinzione, che impedisce ogni accesso e comunicazione tra un complesso e l’altro, sono dotate di una autonoma centralina elettrica, di un separato impianto di condizionamento e sistema antincendio, di un separato sistema di raccolta delle acque reflue e sono dotate di una autonoma viabilità esterna, di ingressi separati e di distinti parcheggi privi di collegamento (oltre a non avere in comune gallerie, aree di carico e scarico, magazzini, uffici, o altro). Esse, quindi, si configurano come due strutture incomunicabili, che non usufruiscono di infrastrutture comuni e di spazi di servizio gestiti unitariamente -criterio questo individuato dall’art. 4 del detto D.Lgs. 114/1998 per individuare, appunto, i centri commerciali-. (Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 6686 del 29-10-2009.,

Il Collegio condivide le considerazioni del primo giudice, sia in punto di qualificazione del rinvio contenuto nella diposizione dell’allegato citato qual “ricettizio” (sulla base della considerazione che la normativa italiana prevale sulle diverse disposizioni regionali venendo in considerazione una materia in cui le regioni non hanno potestà legislativa esclusiva) sia in punto di non “distinguibilità” delle diverse tipologie di centro commerciale sulla scorta di disposizioni legislative o regolamentari regionali (si veda, ancora di recente: “stante l’appartenenza alla competenza esclusiva dello Stato della materia relativa alla tutela dell’ambiente, ai sensi dell’art. 117 comma 2, lett. s), Cost., il legislatore nazionale ha approntato in riferimento alla valutazione ambientale strategica –VAS- una organica disciplina con d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.”-Cons. Stato Sez. IV, 13-11-2012, n. 5715 )

Né potrebbe dirsi che nel caso di specie non ricorra la fattispecie descritta nell’allegato in quanto non può ravvisarsi l’evenienza della “costruzione” (ma semplicemente l’adibizione a centro commerciale di una struttura esistente).

All’evidenza la specifica previsione contenuta nell’allegato e facente diretto riferimento alla fattispecie del “ centro commerciale” resterebbe del tutto priva di logica se intesa con riferimento mero al dato della volumetria realizzata.

A tale proposito, esso non potrebbe in alcun modo distinguersi da ogni altra struttura e resterebbe inspiegabile detta “attenzione”, concretatasi in una specifica previsione, da parte del Legislatore: il vero è, invece, che la specifica previsione si giustifica proprio in relazione alle problematiche di natura ambientale e/o di carico urbanistico che detta tipologia di immobili comportano (si pensi esemplificativamente all’afflusso di visitatori, acquirenti, veicoli per la consegna merci, esercizi a fine ricreativo ivi ubicati).

Ciò implica, ad avviso del Collegio, due corollari: da un canto, che “costruzione” di centro commerciale si ha anche allorchè su un’area prima esistente si realizzino le strutture di collegamento “unificanti” che costituiscono il proprium di detta figura. Più drasticamente, che anche l’adibizione ex novo a tale utilizzo senza erezione “materiale” di nuove opere possa e debba essere ricompresa nella prescrizione dell’allegato, in quanto di per sé idonea a fare insorgere le problematiche di possibile compromissione ambientale che integrano appunto l’interesse sostanziale tutelato dalla norma di derivazione comunitaria.

Le parti appellati censurano l’approdo giudiziale relativo al convincimento secondo il quale dovesse farsi riferimento alla nozione di centro commerciale prevista nella legge nazionale ed insistono nel fare riferimento ad un supposto errore del primo giudice che non avrebbe colto che il progetto tendeva a realizzare un centro commerciale “naturale” siccome previsto nella DCR n. 457/1999, art. 6.

Senonchè neppure tale articolazione del petitum appellatorio convince il Collegio, per due ordini di ragioni.

La prima, è che la nozione di centro commerciale naturale cui ha fatto riferimento il primo giudice è quella universalmente riconosciuta (aggregazione spontanea di esercizi commerciali) come è agevolmente riscontrabile sol che si compulsi (tra l’altro) la detta voce su “wikipedia”: essa chiaramente non ricorre nel caso di specie.

La seconda, ancor più pregnante (oltre alla qualificazione del rinvio quale ricettizio) è quella che il testo del d.lgs n. 152/2006 fa riferimento al concetto di centro commerciale previsto dalla legge nazionale (“costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59″;”) e non può tenersi conto, al fine di escludere il ricorrere della detta prescrizione di sottodistinzioni ascrivibili alla legislazione regionale, non potendo le Regioni incidere sulla individuazione delle opere assoggettate a Vas.

Per altro verso, neppure potrebbe rilevare in senso contrario a quanto sinora esposto la segnalata circostanza che nell’allegato II della DGR n. 12-8931 del 9 giugno 2008 sia stato stabilito che le varianti parziali formate ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77 sono di massima soggette (soltanto) a verifica di assoggettabilità a VAS.

In disparte quanto di qui a poco si dirà in punto di qualificazione della variante avversata qual “parziale” ovvero “strutturale” secondo la sopracitata norma regionale, è opportuno rimarcare che le medesime disposizioni della delibera giuntale specificano che nel corso del procedimento deve essere verificato comunque se le varianti costituiscano il quadro di riferimento per progetti sottoposti a VIA obbligatoria (e quello per cui è causa lo era, secondo quanto si è finora rassegnato): il che implica che la detta previsione non potrebbe valere ad “esonerare” dall’obbligo di preventiva sottoposizione a Via e Vas progetti e piani alle stesse sottoposti in virtù della ricomprensione dei medesimi in una variante di natura parziale (né, è opportuno rimarcare, neppure le appellanti si spingono a postulare una simile conseguenza, che altrimenti si risolverebbe nella dequotazione di una diposizione nazionale cogente ad opera delle disposizioni regionali, in materia sulla quale, come si è prima chiarito, permane la competenza legislativa esclusiva nazionale).

Va rilevato dunque a carico delle deliberazioni impugnate il vizio di tipo procedimentale nell’iter di formazione e approvazione della variante e degli atti alla stessa consequenziali fondatamente dedotto dagli originari ricorrenti ( attuali appellati ), tenuto conto, come già fatto presente da questo Consiglio di Stato ( Sez. IV 12 gennaio 2011 n.133 e, di recente, 17 settembre 2012 n.4926 ) che la valutazione ambientale strategica è da identificarsi come un passaggio endoprocedimentale della pianificazione, concretantesi nella espressione di un parere che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione stessa.

5. Sebbene le affermazioni contenute nel precedente capo della impugnata decisione siano sufficienti alla reiezione dei riuniti appelli ed alla conferma della appellata decisione, ritiene il Collegio di dovere scrutinare la fondatezza delle censure prospettate avverso i capi della pronuncia che hanno sostenuto che ricorreva nel caso di specie una ipotesi di “variante strutturale”ai sensi della legge regionale del Piemonte (piuttosto che quella, ritenuta dall’amministrazione comunale, ed alla quale venne conformato il provvedimento approvativo di “variante semplificata”)

5.1. Stabilisce l’art. 17 della legge regionale 5 dicembre 1977 n. 56 che:

“1. Il Piano Regolatore Generale è sottoposto a revisione periodica ogni dieci anni e comunque in occasione della revisione del Piano Territoriale. Esso mantiene la sua efficacia fino all’approvazione delle successive revisioni e varianti.

2. Le revisioni e le varianti del Piano Regolatore Generale non sono soggette ad autorizzazione preventiva e non richiedono la preliminare adozione della deliberazione programmatica.

3. Costituiscono varianti al Piano Regolatore Generale le modifiche degli elaborati, delle norme di attuazione, o di entrambi, quali definite ai commi 4, 6 e 7.

4. Sono varianti strutturali al Piano Regolatore Generale, da formare e approvare con le procedure di cui all’articolo 15, quelle che producono uno o più tra i seguenti effetti:

a) modifiche all’impianto strutturale del Piano Regolatore Generale vigente ed alla funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale;

b) riducono la quantità globale delle aree a servizi per più di 0,5 metri quadrati per abitante, nel rispetto, comunque, dei valori minimi, di cui alla presente legge;

c) aumentano, per più di 0,5 metri quadrati per abitante, la quantità globale delle aree a servizi, oltre i minimi previsti dalla presente legge;

d) incidono sulla struttura generale dei vincoli nazionali e regionali indicati dal Piano Regolatore Generale vigente a tutela di emergenze storiche, artistiche, paesaggistiche, ambientali e idrogeologiche, fatte salve le correzioni di errori materiali di cui al comma 8, lettera a);

e) incrementano la capacità insediativa residenziale del Piano Regolatore Generale vigente, fatta eccezione per i Comuni con popolazione fino a diecimila abitanti con capacità residenziale esaurita, per i quali valgono le norme di cui al comma 7;

f) incrementano le superfici territoriali o gli indici di edificabilità del Piano Regolatore Generale vigente, relativi alle attività economiche produttive, direzionali, turistico – ricettive, commerciali, anche di adeguamento della disciplina della rete distributiva agli indirizzi ed ai criteri di cui all’articolo 3 della legge regionale sulla disciplina del commercio in Piemonte in attuazione del D.Lgs. n. 114/1998, risultanti dagli atti del piano medesimo, in misura superiore al 6 per cento nei Comuni con popolazione non eccedente i diecimila abitanti, al 3 per cento nei Comuni con popolazione non eccedente i ventimila abitanti, al 2 per cento nei restanti Comuni con popolazione superiore a ventimila abitanti. Tali incrementi devono essere realizzati su aree contigue a quelle urbanizzate o a quelle di nuovo impianto previste dal Piano Regolatore Generale vigente.

5. I limiti dimensionali di cui al comma 4 sono inderogabili e si intendono riferiti all’intero arco di validità temporale del Piano Regolatore Generale.

5-bis. La variante di adeguamento al Piano Regolatore Generale ai sensi del D.Lgs. n. 114/1998 è approvata dalla Giunta regionale entro centoventi giorni dalla data del suo ricevimento esclusivamente nel caso in cui contenga degli interventi attuabili a seguito di avvio delle procedure previste dagli articoli 8 e 9 del decreto medesimo.

6. Costituiscono varianti obbligatorie gli interventi necessari ad adeguare il Piano Regolatore Generale ad atti e strumenti di pianificazione statale, regionale, provinciale o comunque sovraordinata a quella comunale in forza di leggi statali e regionali o di atti amministrativi statali e regionali adottati in applicazione di dette leggi. Il procedimento di formazione di tali varianti si attua attraverso apposite conferenze dei servizi, ai sensi dell’articolo 18 della L.R. 25 luglio 1994, n. 27 (Norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), alla cui indizione provvede la Giunta regionale, entro quarantacinque giorni dall’assunzione di efficacia dell’atto sovraordinato da cui derivi la necessità di adeguamento del Piano Regolatore Generale. All’atto dell’indizione della conferenza la Giunta regionale ne disciplina lo svolgimento ed il termine di completamento.

7. Sono varianti parziali al Piano Regolatore Generale, la cui adozione spetta al Consiglio comunale, quelle che non presentano i caratteri indicati nei commi 4 e 6, che individuano previsioni tecniche e normative con rilevanza esclusivamente limitata al territorio comunale con indicazione nella deliberazione da parte dei Comuni interessati della compatibilità con i piani sovracomunali, quelle che ammettono nuove destinazioni d’uso delle unità immobiliari di superficie pari o inferiore a duecento metri quadrati, site in fabbricati esistenti dotati di opere di urbanizzazione primaria, e quelle che consentono ai Comuni con popolazione inferiore a diecimila abitanti che hanno Piani Regolatori Generali vigenti con capacità insediativa residenziale esaurita, di incrementare la capacità insediativa residenziale stessa non oltre il 4 per cento. Tali incrementi devono essere realizzati su aree contigue a quelle residenziali già esistenti o a quelle residenziali di nuovo impianto previste dal Piano Regolatore Generale vigente, comunque dotate di opere di urbanizzazione primaria collegate funzionalmente con quelle comunali. La delibera di adozione è depositata in visione presso la Segreteria comunale ed è pubblicata presso l’Albo Pretorio del Comune. Dal quindicesimo al trentesimo giorno di pubblicazione, chiunque ne abbia interesse, ivi compresi i soggetti portatori di interessi diffusi, può presentare osservazioni e proposte anche munite di supporti esplicativi. La delibera di adozione deve essere inviata alla Provincia che, entro quarantacinque giorni dalla ricezione, si pronuncia con delibera di Giunta sulla compatibilità della variante con il Piano territoriale provinciale e i progetti sovracomunali approvati. Il pronunciamento si intende espresso in modo positivo se la Provincia non delibera entro il termine sopra indicato. Entro trenta giorni dallo scadere del termine di pubblicazione il Consiglio comunale delibera sulle eventuali osservazioni e proposte ed approva definitivamente la variante. Qualora la Provincia abbia espresso parere di non compatibilità con il Piano territoriale provinciale e i progetti sovracomunali approvati, la delibera di approvazione deve dare atto del recepimento delle indicazioni espresse dalla Provincia oppure essere corredata di definitivo parere favorevole della Giunta provinciale. Nel caso in cui tramite più varianti parziali, vengano superati i limiti di cui al comma 4, la procedura di cui al presente comma non può più trovare applicazione. La deliberazione di approvazione è trasmessa alla Provincia entro dieci giorni dalla sua adozione e alla Regione, unitamente all’aggiornamento degli elaborati del Piano Regolatore Generale.

8. Non costituiscono varianti del Piano Regolatore Generale:

a) le correzioni di errori materiali, nonché gli atti che eliminano contrasti fra enunciazioni dello stesso strumento e per i quali sia evidente ed univoco il rimedio;

b) gli adeguamenti di limitata entità della localizzazione delle aree destinate alle infrastrutture, agli spazi ed alle opere destinate a servizi sociali e ad attrezzature di interesse generale;

c) gli adeguamenti di limitata entità dei perimetri delle aree sottoposte a strumento urbanistico esecutivo;

d) le modificazioni del tipo di strumento urbanistico esecutivo specificatamente imposto dal Piano Regolatore Generale, ove consentito dalla legge;

e) le determinazioni volte ad assoggettare porzioni del territorio alla formazione di strumenti urbanistici esecutivi di iniziativa pubblica o privata e le delimitazioni delle stesse;

f) le modificazioni parziali o totali ai singoli tipi di intervento sul patrimonio edilizio esistente, sempre che esse non conducano all’intervento di ristrutturazione urbanistica, non riguardino edifici o aree per le quali il Piano Regolatore Generale abbia espressamente escluso tale possibilità o siano individuati dal Piano Regolatore Generale fra i beni culturali ambientali di cui all’articolo 24, non comportino variazioni, se non limitate, nel rapporto tra capacità insediativa ed aree destinate ai pubblici servizi;

g) la destinazione ad opere pubbliche, alle quali non sia applicabile il D.P.R. 18 aprile 1994, n. 383, di aree che lo strumento urbanistico generale vigente destina ad altra categoria di servizi pubblici. Ai fini della presente disposizione, sono opere pubbliche quelle realizzate o aggiudicate dai Comuni, dalle Province e dalla Regione, dagli altri Enti pubblici anche economici e dagli organismi di diritto pubblico qualificati come tali dalla legislazione sui lavori pubblici, dalle loro associazione e consorzi. Sono altresì opere pubbliche quelle realizzate o aggiudicate dai concessionari e dai soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, lettere b) e c), della legge 11 febbraio 1994, n. 109, modificata dal D.L. 3 aprile 1995, n. 101 convertito dalla legge 2 giugno 1995, n. 216.

9. Le modificazioni del Piano Regolatore Generale di cui al comma 8 sono assunte dal Comune con deliberazione consiliare; la deliberazione medesima è trasmessa alla Regione, unitamente all’aggiornamento delle cartografie del Piano Regolatore Generale comunale. La deliberazione, nel caso di cui al comma 8 lettera g), è assunta sulla base di atti progettuali, ancorché non approvati ai sensi della legislazione sui lavori pubblici, idonei ad evidenziare univocamente i caratteri dell’opera pubblica in termini corrispondenti almeno al progetto preliminare, nonché il contenuto della modifica allo strumento urbanistico.

10. Le varianti ai Piani Regolatori Generali Intercomunali, ove riguardino il territorio di un solo Comune, sono formate, adottate e pubblicate dal Comune interessato previa informazione al consorzio o alla Comunità montana e per l’approvazione seguono le procedure del presente articolo. Qualora le varianti siano strutturali, ai sensi del comma 4, dopo l’adozione, il Comune trasmette la variante al consorzio o alla Comunità montana che esprime il proprio parere con deliberazione nel termine di sessanta giorni; il parere è trasmesso dal Comune interessato alla Regione unitamente alla variante adottata, per gli adempimenti successivi così come stabiliti dall’articolo 15; allo scadere del termine di sessanta giorni la variante è comunque trasmessa dal Comune alla Regione che assume le proprie determinazioni.

10-bis. Qualora la variante parziale sia stata approvata con procedura non coerente con i suoi contenuti, chiunque vi abbia interesse può presentare, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data di pubblicazione, motivato ricorso al Presidente della Giunta regionale, agli effetti del decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi.”).

Il comma 4 del citato articolo, quindi, definisce quali siano le varianti strutturali al Piano Regolatore Generale, da formare e approvare con le procedure di cui all’articolo 15, con una disposizione ampia, di natura effettuale.

Sono definite tali, quindi, quelle che producono uno o più tra i seguenti effetti:

a) recano modifiche all’impianto strutturale del Piano Regolatore Generale vigente ed alla funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale;

b) riducono la quantità globale delle aree a servizi per più di 0,5 metri quadrati per abitante, nel rispetto, comunque, dei valori minimi, di cui alla presente legge;

c) aumentano, per più di 0,5 metri quadrati per abitante, la quantità globale delle aree a servizi, oltre i minimi previsti dalla presente legge;

d) incidono sulla struttura generale dei vincoli nazionali e regionali indicati dal Piano Regolatore Generale vigente a tutela di emergenze storiche, artistiche, paesaggistiche, ambientali e idrogeologiche, fatte salve le correzioni di errori materiali di cui al comma 8, lettera a);

La disposizione di cui al comma 7 del citato articolo, stabilisce invece quali siano le varianti parziali, da approvarsi con procedura semplificata, non soltanto facendo riferimento al criterio “per esclusione” pure enunciato nell’incipit del medesimo comma 7, (“Sono varianti parziali al Piano Regolatore Generale, la cui adozione spetta al Consiglio comunale, quelle che non presentano i caratteri indicati nei commi 4 e 6,”)ma altresì affiancando a detta indicazione “per esclusione”, pure sussistente, altre fattispecie, poste su un piano di equiordinazione, come dimostrato dalla indicazione intervallata dalla virgola (“che individuano previsioni tecniche e normative con rilevanza esclusivamente limitata al territorio comunale con indicazione nella deliberazione da parte dei Comuni interessati della compatibilità con i piani sovracomunali, quelle che ammettono nuove destinazioni d’uso delle unità immobiliari di superficie pari o inferiore a duecento metri quadrati, site in fabbricati esistenti dotati di opere di urbanizzazione primaria, e quelle che consentono ai Comuni con popolazione inferiore a diecimila abitanti che hanno Piani Regolatori Generali vigenti con capacità insediativa residenziale esaurita, di incrementare la capacità insediativa residenziale stessa non oltre il 4 per cento. Tali incrementi devono essere realizzati su aree contigue a quelle residenziali già esistenti o a quelle residenziali di nuovo impianto previste dal Piano Regolatore Generale vigente, comunque dotate di opere di urbanizzazione primaria collegate funzionalmente con quelle comunali. La delibera di adozione è depositata in visione presso la Segreteria comunale ed è pubblicata presso l’Albo Pretorio del Comune. Dal quindicesimo al trentesimo giorno di pubblicazione, chiunque ne abbia interesse, ivi compresi i soggetti portatori di interessi diffusi, può presentare osservazioni e proposte anche munite di supporti esplicativi. La delibera di adozione deve essere inviata alla Provincia che, entro quarantacinque giorni dalla ricezione, si pronuncia con delibera di Giunta sulla compatibilità della variante con il Piano territoriale provinciale e i progetti sovracomunali approvati. Il pronunciamento si intende espresso in modo positivo se la Provincia non delibera entro il termine sopra indicato. Entro trenta giorni dallo scadere del termine di pubblicazione il Consiglio comunale delibera sulle eventuali osservazioni e proposte ed approva definitivamente la variante. Qualora la Provincia abbia espresso parere di non compatibilità con il Piano territoriale provinciale e i progetti sovracomunali approvati, la delibera di approvazione deve dare atto del recepimento delle indicazioni espresse dalla Provincia oppure essere corredata di definitivo parere favorevole della Giunta provinciale. Nel caso in cui tramite più varianti parziali, vengano superati i limiti di cui al comma 4, la procedura di cui al presente comma non può più trovare applicazione. La deliberazione di approvazione è trasmessa alla Provincia entro dieci giorni dalla sua adozione e alla Regione, unitamente all’aggiornamento degli elaborati del Piano Regolatore Generale”).

5.2. Appare opportuno al Collegio interrogarsi sul significato da attribuire alla norma medesima.

Nel lodevole intento, infatti, di semplificare per l’interprete la lettura della citata disposizione, il Legislatore regionale ha in realtà –forse- reso disagevole la enucleazione della casistica concreta.

Ad avviso del Collegio, l’unica lettura possibile, è quella per cui è variante parziale, quella che non rientra nelle ipotesi disciplinate dai commi 4 e 6 della norma.

Accanto a tale previsione, che costituisce l’incipit non solo “topografico” ma anche logico, il Legislatore ha individuato altre fattispecie, in cui, esemplificativamente, ha chiarito che trattasi di varianti parziali.

Ma ciò non significa che, laddove ci si trovi al cospetto di una variante astrattamente riconducibile nel novero delle previsioni di cui alla seconda parte del comma 7, e pur non rientrante nelle medesime, si sia necessariamente al cospetto di una variante strutturale: ciò perché, affinchè sia integrata detta fattispecie, occorre pur sempre che si producano alcuni tra gli effetti normati dal comma 4 e dal comma 6 della citata disposizione.

Ove ciò non accada, sebbene ci si trovi al cospetto di una variante non perfettamente coincidente con le previsioni di cui alla seconda parte del comma 7, dalla mancata produzione degli “effetti” di cui ai commi 4 e 6, dovrà discendere la conclusione che la variante rientri nel novero di quelle “semplificate”.

5.2.1. Ciò si afferma, perché nella decisione di primo grado (capo 10.2) affiora un’affermazione che al Collegio in via di principio sembra senz’altro errata in quanto inverte il percorso logico come sopra indicato, pervenendo all’affermazione per cui ”in tal senso debbono essere approvate come varianti “strutturali” non solo le varianti che abbiano le caratteristiche indicate dall’art. 17 comma 4 e comma 6 (varianti obbligatorie di adeguamento ad altri strumenti di pianificazione), ma anche tutte le varianti che non rispondano alle caratteristiche che l’art. 17 comma 7 individua per le varianti parziali.”.

Tale affermazione si lega a quella immediatamente successiva (conclusiva del capo 10.2) secondo la quale “la variante d’altro canto comporta il cambiamento di destinazione d’uso dell’intera superficie del Palazzo del Lavoro, che occupa un’area di 28.000 mq.”.

Il primo giudice, quindi, sembra avere affermato la qualificabilità della variante quale “strutturale” anche a cagione della circostanza che essa ha comportato il cambiamento di destinazione d’uso della superficie del Palazzo del Lavoro, in quanto questa era pari a mq 28.000, e quindi enormemente maggiore della indicazione contenuta nel citato comma 7 dell’art. 17 (“ sono varianti parziali al Piano Regolatore Generale, la cui adozione spetta al Consiglio comunale, quelle che non presentano i caratteri indicati nei commi 4 e 6, che individuano previsioni tecniche e normative con rilevanza esclusivamente limitata al territorio comunale con indicazione nella deliberazione da parte dei Comuni interessati della compatibilità con i piani sovracomunali, quelle che ammettono nuove destinazioni d’uso delle unità immobiliari di superficie pari o inferiore a duecento metri quadrati, site in fabbricati esistenti dotati di opere di urbanizzazione primaria,”).

Per quanto finora affermato il Collegio non concorda con tale ricostruzione, che pur astrattamente compatibile con il dato letterale, – è bene rimarcarlo- appare illogica sotto il profilo effettuale.

Invero aderendo alla tesi del primo giudice, dovrebbe affermarsi che, laddove si debba modificare la destinazione d’uso di un immobile di anche di poco superiore alla soglia di mq 200, si dovrebbe procedere con il lungo procedimento della variante strutturale, coinvolgendo la Regione

Così certamente non è. Il legislatore regionale, invece, ha imposto una “presunzione assoluta” per cui, ove si debba modificare la destinazione d’uso di un immobile di consistenza pari od inferiore a alla soglia di mq 200 si proceda sempre e comunque con la variante semplificata.

Ma ciò non significa che se l’immobile la cui destinazione d’uso è superiore debba procedersi con la variante “strutturale”: ciò potrebbe avvenire laddove essa produca taluno degli affetti normati nel comma 4 o 6 del citato articolo: ove ciò non avvenga, sebbene incidente su un immobile di maggiori dimensioni rispetto a quelle indicate nel citato comma 7, la modifica della destinazione d’uso potrà avvenire con variante “semplificata”.

In parte qua la sentenza deve essere corretta nella motivazione.

5.3. Quello sinora esposto, tuttavia, non è stato l’unico caposaldo motivazionale che ha indotto il primo giudice a ritenere che la variante avesse natura “strutturale” ( e che quindi si era errato a non approvarla seguendo la procedura scolpita dall’art. 15 della citata legge regionale).

Il Tribunale amministrativo, infatti, come fatto cenno in precedenza, ha ritenuto che, sotto il profilo effettuale, la variante producesse un “esito” espressamente normato alla lett. a del citato comma 4 (id est: modifiche alla funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale) e che pertanto da ciò derivasse la propria qualificazione qual strutturale.

5.3.1. Le appellanti hanno diffusamente criticato tale opinamento ma, ad avviso del Collegio, dette critiche non colgono nel segno.

La lett. a del comma quarto della invocata disposizione regionale (il cui positivo ricorrere è stato affermato dal primo giudice) così prevede: “modifiche all’impianto strutturale del Piano Regolatore Generale vigente ed alla funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovra comunale”.

La congiunzione ‘e’ va intesa, va intesa, all’evidenza, quale alternativa e non copulativa (e del resto l’incipit del comma stabiliva che sono “strutturali” le varianti che producano uno dei seguenti effetti): se, quindi, una variante “modifichi la funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale” essa rientra nel novero delle varianti strutturali (sebbene non implichi alcuna “modifica all’impianto strutturale del Piano Regolatore Generale vigente”) e va approvata con la (giocoforza più complessa) procedura di cui all’articolo 15 della legge medesima (incontrovertibilmente non applicata nel caso di specie).

La disposizione contenuta nella citata norma – il cui ampio spettro applicativo appare evidente già allorchè ci si soffermi sul dato letterale- appare espressione di un principio di natura prevenzionistica: esso infatti, fa riferimento alla mera “funzionalità” delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale senza prescrivere alcuna modificazione strutturale delle medesime.

In sostanza il principio ivi espresso è chiaro: la variante che possa richiedere modifiche ad una infrastruttura di rilievo sovracomunale in quanto interferente con la funzionalità della detta infrastruttura va approvata con una procedura maggiormente “ponderata”, seppur meno celere.

Se così è, lo sforzo contenuto negli atti di appello (soprattutto, per il vero, nei pregevoli scritti difensivi di Pentagramma Piemonte Spa) non raggiunge il voluto scopo di infirmare l’iter logico contenuto nell’appellata decisione.

Alle pagg. 28-30 dell’atto di appello di Pentagramma Piemonte Spa, infatti, ci si sofferma a lungo nella dimostrazione di due emergenze fattuali che possono essere così sintetizzate: il problema traffico nell’area interessata preesisteva alla variante e, anzi, sarebbe proprio l’oggetto preso da questa in esame; in ogni caso erano state adottate cautele atte ad “alleggerire” il traffico proveniente da Corso Trieste (ubicato in Moncalieri) in ingresso a Torino.

Parte appellante critica l’iter logico seguito dalla sentenza appellata ma, a ben guardare, se ci si pone nell’ottica prospettica della qualificazione (strutturale o meno) della variante che si intendeva approvare non pone decisivamente in discussione l’approdo al quale il primo giudice è pervenuto.

Nella gravata decisione, infatti, vengono valorizzati taluni “passaggi” procedimentali che confortano in ordine alla esattezza della opzione ermeneutica fatta propria dal T.A.R.

Ivi invero è dato riscontrare le affermazioni (che di seguito brevemente si riportato) per cui “la Giunta Provinciale, nel parere assunto ai sensi dell’art. 17 comma 7 L.R. 56/77, condizionava l’avviso favorevole alla variante a condizione “di richiedere, prima dell’approvazione definitiva della Variante, la previsione di idonee soluzioni infrastrutturali, da concertare con la Provincia e con il Comune di Moncalieri, finalizzate a migliorare le condizioni di accessibilità veicolare connesse alle rilevanti funzioni commerciali previste, in considerazione delle caratteristiche della viabilità e dei notevoli flussi di traffico in atto e che interessano Corso Unità d’Italia, l’intersezione in rotatoria di Corso Maroncelli in Torino, il Corso Trieste in Moncalieri”.

Ancora più esplicito è poi il parere reso dalla Provincia medesima nel corso della procedura di assoggettabilità a VAS. Ivi si legge: “….desta preoccupazione la situazione in entrata//uscita da e per Torino attraverso la rotonda Maroncelli, già inadeguata a smaltire i volumi di traffico ai quali viene sottoposta in periodi di punta (come peraltro correttamente emerso nell’allegato studio sul traffico. “L’incidenza marginale” sull’incremento del traffico, come tale definita e documentata dallo studio stesso, deve essere necessariamente letta in un contesto di riferimento già critico su cui sembra inutile dilungarsi ulteriormente, di una delle porte di accesso alla città di Torino, sia in un’ottica puramente viabile, che in quella di carico inquinanti/qualità dell’area. ……In particolare mentre l’aumento di carico degli inquinanti deve essere riferito a un contesto prettamente locale, l’aumento del traffico, vista la localizzazione dell’area , tende ad assumere valenza non solo di livello locale, ma di livello generale nell’ottica dell’accessibilità complessiva alla città dal territorio circostante, e quindi con ripercussioni che, applicate ad un sistema già cronicizzato per tali aspetti, potrebbe risultare azzardato definire “marginali”. Si ricorda infine che il PTC (art. 10.5) individua a livello prescrittivi che “una delle condizioni di ammissibilità per i servizi per il commercio…..é quella della presenza di adeguate infrastrutture per la viabilità ”.

La determina dirigenziale n. 277/09, infine, ha essa stessa determinato di escludere la Variante 190 dalla VAS prescrivendo, prima del rilascio delle autorizzazioni commerciali, che “siano valutati e specificate le azioni e soluzioni progettuali viabili da intraprendere sul sistema locale, onde poter mitigare le criticità sulla mobilità privata. In particolare sia verificata la fattibilità tecnico-economica di interventi migliorativi della viabilità attuale di corso Trieste in Moncalieri, in prossimità della rotonda Maroncelli….”.”

Ad avviso delle parti appellanti la sentenza sarebbe viziata da un errore prospettico in quanto il parere della Provincia non era “condizionato” e comunque la determinazione Dirigenziale n. 277/2009 conclusiva del procedimento resa all’esito della Conferenza di Servizi cui aveva partecipato anche il Comune di Moncalieri aveva recepito l’indicazione di matrice provinciale circa il miglioramento della viabilità di contorno.

L’appello si diffonde poi in ordine alla illustrazione delle soluzioni adottate (delibera Giuntale del 15.11.2011 di approvazione dello schema di convenzione prodromica alla richiesta di permesso di costruire convenzionato) evidenziandosi che era stata prevista la realizzazione di una corsia di bypass della rotonda Maroncelli.

Il Collegio ritiene di dovere affermare che la –pur abilmente prospettata- tesi defensionale eluda l’interrogativo che ha trovato risposta nella gravata decisione.

Non è contestato, e neppure è il caso di soffermarsi, sulla idoneità delle soluzioni adottate a “risolvere” il problema traffico sull’area. E neppure appare rilevante evidenziare che la tesi esposta nell’appello finisca con il misconoscere, se non negare, che il progettato intervento assentito avrebbe verosimilmente amplificato ed incrementato la problematica traffico/circolazione, limitandosi a sostenere che trattavasi di un inconveniente preesistente al progetto.

L’appello, tuttavia, sposta il fulcro dell’attenzione su un dato “effettuale” (quello della idoneità delle modifiche proposte), eludendo invece il dato “genetico” che costituisce perno centrale del decisum di primo grado.

Il quesito cui occorre rispondere, alla stregua delle censure proposte, è invece tutt’affatto diverso.

Occorre interrogarsi infatti, in ordine alla circostanza relativa alla natura degli accorgimenti ritenuti necessarii, e se gli stessi, secondo un giudizio ex ante, integrassero – o meno- “modifiche alla funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale”.

Dalla risposta positiva al detto quesito, discende infatti la conseguenza che la variante doveva qualificarsi quale “strutturale” ed avrebbe dovuto essere approvata con la procedura di cui all’art. 15 della legge regionale citata.

Ritiene il Collegio che la risposta positiva appaia scontata: le prescrizioni della variante interferiscono con l’asse viario di Corso Trieste, ubicato in comune di Moncalieri; quest’ultima è una infrastruttura di rilevanza sovracomunale, come lo è la rotonda Maroncelli che sebbene ubicata per intero nel comune di Torino è il terminale finale di tale intersezione viaria.

Le modifiche adottate – e prima ancora le problematiche emerse- interferivano con la funzionalità delle dette infrastrutture, e tanto bastava per fare ritenere che la variante dovesse essere ricompresa tra quelle sub art. 4 lett. a della legge regionale del 1977.

Né il contenuto della circolare regionale n. 4171997 citata dall’appellante potrebbe indurre a diverso convincimento (in disparte la circostanza che la modifica prevista, concretatasi nella realizzazione di una corsia che bypassa la rotatoria, non pare neppure possa essere sussunta in una “lieve modifica del tracciato, nel raccordo o nell’innesto di cui alla citata circolare”).

D’altro canto ciò costituisca l’unica ragione giustificativa della circostanza per cui gli enti intervenuti nel procedimento (massime la Provincia) abbiano sottolineato la necessità del coinvolgimento del Comune di Moncalieri (ma anche della Provincia stessa) al fine di concretare l’apprestamento di “idonee soluzioni infrastrutturali”: l’immobile per cui è causa, infatti, insiste per intero sul suolo comunale di Torino: soltanto l’emergere della necessità di adozione di “modifiche alla funzionalità delle infrastrutture urbane di rilevanza sovracomunale” imponeva il coinvolgimento del comune viciniore.

E ciò è avvenuto: ma da ciò discende che ben altra avrebbe dovuto essere la qualificazione (e la procedura di approvazione) della variante e che risulta pertanto pienamente comprovata la critica al modus operandi comunale positivamente recepita nella sentenza di primo grado che anche sotto tale profilo si appalesa condivisibile ed immune da mende.

Consegue da quanto sinora illustrato la reiezione anche di tale doglianza contenuta nei riuniti appelli, con portata assorbente rispetto alle altre censure prospettate (ed ovviamente di quelle incidentalmente riproposte dall’appellata società) il che implica, la integrale conferma della gravata decisione con le precisazioni rese in motivazione.

6. Conclusivamente i riuniti appelli devono essere respinti ed i riproposti motivi di primo grado devono essere dichiarati improcedibili, mentre la gravata sentenza merita conferma nei termini e con le precisazioni fornite in motivazione.

7. La complessità delle questioni esaminate impone la integrale compensazione delle spese processuali sostenute dalle parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sui riuniti appelli, come in epigrafe proposti li respinge nei termini di cui alla motivazione che precede e dichiara improcedibili le censure incidentalmente riproposte della originaria ricorrente di primo grado confermando la sentenza gravata con le precisazioni di cui alla parte motiva.

Dichiara inammissibile l’intervento ad opponendum spiegato dai Signori Buratti ed altri

Spese processuali integralmente compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 marzo 2013 con l’intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Diego Sabatino, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 06/05/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)