Giustizia amministrativa: violazione dei limiti posti al riesercizio del potere e giudizio di ottemperanza

NOTA

La sentenza afferma che la P.A. – in sede di riesercizio del potere – è tenuta a rispettare i limiti posti dalla sentenza di annullamento di un precedente provvedimento di diniego e che la violazione di tali limiti è censurabile all’interno del giudizio di ottemperanza al giudicato.

Nella fattispecie esaminata, relativa all’annullamento del diniego di agevolazioni emenato da Invitalia – Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa S.p.A., il Collegio ha ritenuto che l’amministrazione era incorsa “(…) nella violazione dei limiti posti al riesercizio del potere, procedendo ad una attualizzazione (e novità) di valutazione, non consentita dal precedente esercizio del potere medesimo.”.

Ci sembrano meritevoli di segnalazione, le premesse da cui muove il Collegio nel giudicare la fattispeie concreta, laddove, dopo aver constatato che il c.p.a. assegna al giudizio di ottemperanza contenuti variegati e una natura “ampia e poliforme”, da tenere presente quando si tratta di verificare “(…) quali siano i margini di “rivalutazione dei fatti”, in sede di ri-esercizio del potere amministrativo, a seguito di sentenza di annullamento di precedente provvedimento negativo“, osserva che “(…) – in presenza di un nuovo provvedimento che si assume emanato in elusione o violazione di giudicatola natura dichiarativa della pronuncia, vertendosi in tema di nullità (ex art. 21-septies l. n. 241/1990 ed art. 31 Cpa), comporta che il giudice dell’ottemperanza debba confrontrare la “novità” del contenuto provvedimentale con il contenuto prescrittivo della sentenza passata in giudicato.

Lo stesso giudice ben può – laddove riscontri la sussistenza della nullità dell’atto – indicare all’amministrazione puntuali criteri per dare attuazione al giudicato, ponendo così limiti al riesercizio del potere, senza che ciò possa essere considerato invasivo del “merito” amministrativo; e ciò anche nel caso in cui ad essere rimessi in discussione non sono i “fatti” (rimasti immutati), ma la “valutazione” dei medesimi.

Se è consentito al giudice, ex art. 112, co. 3, Cpa, verificare la possibilità della “esecuzione in forma specifica” della sentenza, onde rigettare la domanda di risarcimento del danno per violazione o elusione del giudicato, eventualmente proposta dalla parte vittoriosa nel giudizio di cognizione, ben può affermarsi che è consentito al medesimo giudice indicare all’amministrazione i limiti entro i quali deve svolgersi il suo ulteriore esercizio di potere amministrativo, onde adeguare la propria azione amministrativa a quanto emergente dalla sentenza passata in giudicato.

3. Tanto precisato, nel caso in cui il riesercizio del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, sono state oggetto di esame da parte del giudice, non può escludersi in via generale la rivalutazione dei medesimi fatti già sottoposti al vaglio giurisdizionale. Ma se ciò è insito nello stesso concetto di riesercizio del potere, tale riesercizio è tuttavia soggetto a precisi limiti e vincoli.

Occorre innanzi tutto osservare che, poiché il Codice del processo amministrativo consente l’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della pretesa e non solo alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, di conseguenza l’azione davanti al giudice amministrativo è sempre di più qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza che ci si debba limitare all’esame del fatto medesimo per il tramite dell’atto (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3).

Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa. E ciò in coerenza con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia).

Si è anzi affermato (Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2012, n. 3569) che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della normativa sopravvenuta.

Anche nel caso in cui ciò che è rimesso in discussione è la valutazione dei fatti, si è detto che il riesercizio del potere amministrativo non è senza limiti.

Perché tale operazione valutativa non contrasti con il giudicato, occorre che essa si dimostri il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente. In caso contrario, il ripensamento si manifesta come l’espressione di una gestione ondivaga e contraddittoria del potere, frutto di valutazioni via via modificate in ragione della/e pronunce del giudice, e in quanto tale contrastante sia con il principio di buon andamento dell’attività amministrativa, sia con i principi di correttezza e buona fede.”.

* * *

N. 00275/2013REG.PROV.COLL.

N. 01478/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1478 del 2012, proposto da:
Invitalia – Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa S.p.A., rappresentata e difesa dall’avv. Stefano Vinti, con domicilio eletto presso Stefano Vinti in Roma, via Emilia n. 88;

contro

Masi & C. di Vasilca Masi Sas, rappresentato e difeso dall’avv. Carlo Rienzi, con domicilio eletto presso Carlo Rienzi in Roma, viale delle Milizie, 9; Commissario ad acta Dott. Ida Fontana;

nei confronti di

Ministero dell’Economia e delle Finanze;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III BIS n. 09555/2011, resa tra le parti, concernente esecuzione sentenza n. 8613/2010 TAR Lazio sez. III bis – mancata ammissione agevolazioni finanziarie.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Masi & C. di Vasilca Masi Sas;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 20 marzo 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Pierfrancesco Palatucci in sostituzione di Stefano Vinti e Carlo Rienzi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con l’appello in esame, la società Invitalia – Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa (già Sviluppo Italia s.p.a.), di seguito indicata come “Invitalia”, impugna la sentenza 5 dicembre 2011 n. 9555, con la quale il TAR per il Lazio, sez. III – bis, ha accolto il ricorso proposto dalla società Masi e c. di Valsilca Masi s.a.s. (di seguito “società Masi”), volto ad ottenere l’ottemperanza della precedente sentenza, emessa dal medesimo Tribunale, 27 aprile 2010 n. 8613.

La sentenza pronunciata in sede di ottemperanza ha innanzi tutto rilevato che la precedente sentenza n. 8613/2010 aveva “disposto l’annullamento dell’atto di diniego adottato dall’Invitalia con delibera datata 30 gennaio 2009 per violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, per travisamento dei fatti, per difetto di analisi istruttoria e di motivazione”.

Da ciò consegue che “non era nei poteri dell’amministrazione rinnovare integralmente il procedimento istruttorio ma era obbligo dell’amministrazione attenersi rigidamente ai criteri ed analisi operati dal giudicato sia in tema di travisamento dei fatti, sia in materia di erronea analisi delle acquisizioni istruttorie che in materia di circostanziata motivazione sui punti ritenuti non idonei per l’ammissibilità del progetto”

E poiché l’amministrazione aveva già ritenuto sussistenti taluni requisiti (v. pag. 11 sent.), “residuava, pertanto, un ristretto margine di valutazione per la verifica della sussistenza dell’ultimo requisito, quello della validità tecnica e finanziaria dell’impresa, da effettuare sulla base dei dati raccolti durante la fase istruttoria e nelle relazioni conclusive, con la conseguenza che in sede di rinnovazione del procedimento in esecuzione del giudicato, l’amministrazione non avrebbe dovuto attivare una nuova istruttoria, ma provvedere ad una “analisi istruttoria operando la valutazione sulla scorta degli errori e travisamenti di fatto riscontrati dal giudice amministrativo”.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

erroneità della sentenza; violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 114 Cpa; violazione e falsa applicazione d. lgs. n. 185/2000, della delibera CIPE n. 5/2002 e del D.M. 295/2001; difetto di istruttoria, travisamento dei presupposti fattuali e giuridici; illogicità e ingiustizia manifesta; ciò in quanto:

a) il nuovo provvedimento di diniego adottato non costituisce elusione di giudicato, né è meramente ripetitivo dell’originario provvedimento di diniego annullato con la sentenza n. 8613/2010;

b) il Tribunale ha “valutato l’attività di riesame effettuata da Invitalia alla luce di criteri errati, che la normativa di riferimento stabilisce per valutare tipologie di progetti (quelli relativi alla autoimprenditorialità disciplinati dal Titolo I del cit. d. lgs. n. 185/2000), diversi” da quelli di cui al caso di specie, relativi ad una attività di autoimpiego in forma di microimpresa (Titolo II del d. lgs. n. 185/2000);

c) pertanto, Invitalia, in esecuzione della sentenza di annullamento, “ha effettuato una attenta e accurata istruttoria sulla base di quanto stabilito nella predetta sentenza n. 8613/2010 e dei criteri stabiliti dalla normativa di riferimento, non potendo certamente rivalutare il progetto in funzione dei criteri erroneamente richiamati dal giudice dell’esecuzione che risultano inapplicabili al progetto imprenditoriale proposto”;

d) peraltro, “il nuovo provvedimento di rigetto reca un’ampia ed esaustiva motivazione di tutte le ragioni che non hanno consentito di ammettere il progetto al finanziamento richiesto all’esito del riesame”;

e) l’annullamento del provvedimento di rigetto è avvenuto “in funzione di una errata o non esaustiva valutazione delle controdeduzioni presentate dal richiedente ai sensi dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990, e non anche per l’errata applicazione dei criteri di valutazione”, di modo che non può affermarsi che il TAR “abbia predeterminato una ‘regola iuris’ che imponeva all’amministrazione di adottare necessariamente un provvedimento di ammissione al finanziamento”.

Si è costituita in giudizio la società Masi, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Occorre innanzi tutto osservare che il Codice del processo amministrativo, nel disciplinare il giudizio di ottemperanza, prevede:

– per un verso, che l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione di una pluralità di provvedimenti giurisdizionali, anche di giudici diversi dal giudice amministrativo (art. 112, co. 2, lett. a) – e);

– per altro verso, che “il ricorso di cui al presente articolo” (recte: di cui all’art. 113 ss., posto che nell’art. 112 si parla dell’ “azione” e non del “ricorso” per l’ottemperanza), può essere utilmente proposto “anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza” (art. 112, co. 5).

Inoltre, il successivo art. 114, co. 7, dispone che “nel caso di ricorso ai sensi del comma 5 dell’art. 112, il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del Commissario”.

Pur esulando dalla presente sede una completa disamina della natura dell’azione di ottemperanza (alla quale questo Consiglio di Stato ha – a vario titolo – dedicato le Adunanze Plenarie nn. 2, 18 e 24 del 2012), giova osservare che la disciplina dell’azione di ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione della sentenza e/o di altro provvedimento ad esse equiparabile, evidenzia profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere:

a) rivolta, in generale, a conseguire “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634). e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). Nell’ipotesi qui esaminata, l’ampiezza della previsione normativa impedisce di ricondurre la natura dell’azione a quella di mera “azione di esecuzione” di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio di cognizione o altro provvedimento ad essa equiparato;

b) rivolta ad ottenere la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione ha mera natura esecutiva, ed essa è evidentemente “attratta” dal giudizio di ottemperanza, stante la natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza (o provvedimento equiparato);

c) rivolta ad ottenere il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” (art. 112, comma 3). In quest’ultimo caso, l’azione – che ha chiaramente natura risarcitoria, essendo in tal modo definita dal Codice – non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza e/o provvedimento equiparato, ma essa trova in questi ultimi solo il presupposto perché un nuovo e distinto comportamento dell’amministrazione, che si presenti inottemperante, violativo o elusivo del giudicato, renda impossibile il ripristino della posizione soggettiva innanzi pregiudicata dalla stessa amministrazione (anche) mediante un esercizio illegittimo del potere amministrativo ovvero sia produttivo di danno. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa divenuta impossibile ovvero ulteriori danni sono derivati alla parte vittoriosa per mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e, quindi, di effettività della tutela giurisdizionale, attribuita al giudice dell’ottemperanza.

Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’”attuazione” richiesta ad una “esecuzione” della sentenza (o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.

Tale diversa, più ampia e poliforme natura del giudizio di ottemperanza non può non essere tenuta presente, allorché occorra verificare quali siano i margini di “rivalutazione dei fatti”, in sede di ri-esercizio del potere amministrativo, a seguito di sentenza di annullamento di precedente provvedimento negativo.

A tal fine, occorre innanzi tutto osservare che – in presenza di un nuovo provvedimento che si assume emanato in elusione o violazione di giudicato – la natura dichiarativa della pronuncia, vertendosi in tema di nullità (ex art. 21-septies l. n. 241/1990 ed art. 31 Cpa), comporta che il giudice dell’ottemperanza debba confrontrare la “novità” del contenuto provvedimentale con il contenuto prescrittivo della sentenza passata in giudicato.

Lo stesso giudice ben può – laddove riscontri la sussistenza della nullità dell’atto – indicare all’amministrazione puntuali criteri per dare attuazione al giudicato, ponendo così limiti al riesercizio del potere, senza che ciò possa essere considerato invasivo del “merito” amministrativo; e ciò anche nel caso in cui ad essere rimessi in discussione non sono i “fatti” (rimasti immutati), ma la “valutazione” dei medesimi.

Se è consentito al giudice, ex art. 112, co. 3, Cpa, verificare la possibilità della “esecuzione in forma specifica” della sentenza, onde rigettare la domanda di risarcimento del danno per violazione o elusione del giudicato, eventualmente proposta dalla parte vittoriosa nel giudizio di cognizione, ben può affermarsi che è consentito al medesimo giudice indicare all’amministrazione i limiti entro i quali deve svolgersi il suo ulteriore esercizio di potere amministrativo, onde adeguare la propria azione amministrativa a quanto emergente dalla sentenza passata in giudicato.

3. Tanto precisato, nel caso in cui il riesercizio del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, sono state oggetto di esame da parte del giudice. non può escludersi in via generale la rivalutazione dei medesimi fatti già sottoposti al vaglio giurisdizionale. Ma se ciò è insito nello stesso concetto di riesercizio del potere, tale riesercizio è tuttavia soggetto a precisi limiti e vincoli.

Occorre innanzi tutto osservare che, poiché il Codice del processo amministrativo consente l’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della pretesa e non solo alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, di conseguenza l’azione davanti al giudice amministrativo è sempre di più qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza che ci si debba limitare all’esame del fatto medesimo per il tramite dell’atto (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3).

Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa. E ciò in coerenza con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia).

Si è anzi affermato (Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2012, n. 3569) che l’ampiezza dell’accertamento sostanziale contenuto nella sentenza passata in giudicato condiziona gli spazi di applicabilità anche della normativa sopravvenuta.

Anche nel caso in cui ciò che è rimesso in discussione è la valutazione dei fatti, si è detto che il riesercizio del potere amministrativo non è senza limiti.

Perché tale operazione valutativa non contrasti con il giudicato, occorre che essa si dimostri il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente. In caso contrario, il ripensamento si manifesta come l’espressione di una gestione ondivaga e contraddittoria del potere, frutto di valutazioni via via modificate in ragione della/e pronunce del giudice, e in quanto tale contrastante sia con il principio di buon andamento dell’attività amministrativa, sia con i principi di correttezza e buona fede.

4..Nel caso di specie, con la sentenza 27 aprile 2010 n. 8613, il TAR per il Lazio ha accolto il ricorso con il quale la società Masi ha impugnato, in particolare, la delibera di Invitalia 30 gennaio 2009, di non ammissibilità della sua domanda di agevolazioni ex d. lgs. n. 185/2000.

Il provvedimento è stato annullato in accoglimento del primo motivo di gravame, con il quale si è lamentata la violazione del d. lgs. n. 185/2000, della delibera CIPE n. 5/20032, del D.M. n. 295/2001, nonché l’eccesso di potere per travisamento di fatto, difetto di istruttoria e di motivazione e art. 10-bis l. n. 241721990.

La sentenza, preso atto che il diniego di ammissione a contributo è stato motivato – sia in sede di preavviso di rigetto, sia dopo le controdeduzioni – sulla “carenza di validità tecnica, economica e finanziaria dell’iniziativa”, ha rilevato:

– “la assoluta genericità delle motivazioni assunte con l’atto di diniego impugnato, nonché la non congruenza delle motivazioni, per lo più inconferenti e generiche, poste dall’amministrazione a base della valutazione di inidoneità delle controdeduzioni formulate ex art. 10-bis”;

– ciò in quanto vi è stata una “stereotipata e generica motivazione della non validità tecnica, economica e finanziaria del progetto presentato”;

– nello specifico, la genericità delle valutazioni quanto alle “previsioni di vendita”, all’ “analisi della concorrenza”, alla “completezza del piano di investimenti”, alla “fattibilità e credibilità” (pagg. 11 – 15).

A seguito della sentenza n. 8613/2010, Invitalia ha disposto l’annullamento del provvedimento di non ammissione, quindi la riammissione della domanda, ma ha nuovamente adottato un provvedimento di diniego di ammissione a finanziamenti.

Tale valutazione, però, riscontra nuovamente la “carenza di validità tecnica, economica e finanziaria dell’iniziativa”, attraverso una rivalutazione degli elementi posti a sostegno della domanda, che non tiene conto di quanto già affermato dalla sentenza, che aveva già ritenuti sussistenti i requisiti della attendibilità professionale del richiedente, dell’affidabilità del piano finanziario, della redditività a livello tecnologico del progetto, della potenzialità del mercato di riferimento.

Come ha condivisibilmente evidenziato la sentenza appellata, “non era nei poteri dell’amministrazione rinnovare integralmente il procedimento istruttorio ma era obbligo dell’amministrazione attenersi rigidamente ai criteri ed analisi operati dal giudicato”; pertanto, alla luce di ciò, “residuava . . . un ristretto margine di valutazione per la verifica della sussistenza dell’ultimo requisito, quello della validità tecnica e finanziaria dell’impresa, da effettuare sulla base dei dati raccolti durante la fase istruttoria e nelle relazioni conclusive”.

Rinnovando completamente il procedimento di valutazione della domanda, l’amministrazione è incorsa proprio nella violazione dei limiti posti al riesercizio del potere, procedendo ad una attualizzazione (e novità) di valutazione, non consentita dal precedente esercizio del potere medesimo.

Quanto al lamentato utilizzo, da parte del giudice, di criteri di valutazione non coerenti con il tipo di attività per il quale il finanziamento è stato richiesto, occorre osservare:

– per un verso, che la sentenza della quale si è disposta l’ottemperanza ha sindacato la legittimità del provvedimento impugnato sulla base della intrinseca logica delle valutazioni effettuate dall’amministrazione e dei presupposti istruttori da questa utilizzati;

– per altro verso, che laddove il giudice del cognitorio avesse utilizzato criteri non applicabili al caso considerato, ciò avrebbe dovuto costituire motivo di impugnazione avverso tale sentenza;

– per altro verso ancora, che tale aspetto non appare emergere dalla sentenza appellata, la quale si limita ad evidenziare i punti di valutazione già chiariti dalla sentenza cui prestare ottemperanza (v. in part., pagg. 10 – 11).

Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Invitalia – Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo dell’impresa s.p.a. (n. 1478/2012 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 marzo 2012 con l’intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 17/01/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)