Finanza pubblica: sui limiti quantitativi ai compensi degli amministratori di società partecipate

NOTA

Con il parere in rassegna, la Sezione Calabria si pronuncia sui vincoli nella determinazione dei compensi del presidente e dei componenti del consiglio di amministrazione delle società partecipate da comuni o province, nonché delle società da quest’ultimi controllate ex art. 2359 c.c..

Dopo un attento esame dei principi posti in materia dalla normativa civilistica in merito alla determinazione dei compensi degli amministratori di società di capitali, la Sezione, con specifico riferimento alle società (totalmente) partecipate da enti locali, ritiene che dalla disciplina dettata dalla finanziaria per il 2007 (art. 1 co. 725 e ss., L. n. 296/2006), non è evincibile un limite complessivo di spesa, pur non testualmente previsto, entro il quale poter liberamente calibrare i corrispettivi individuali finanche violando, seppure solo per una parte dei membri dell’organo, il tetto invece analiticamente e testualmente modulato dalla norma per categorie di componenti.

La Sezione ritiene altresì che all’interno delle “società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica”ex art. 6, co. 6, D.L. 31 maggio 2010, n. 78sono da comprendere anche le società totalmente partecipate o controllate dalle amministrazioni pubbliche.

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Deliberazione n.84/2012

Corte dei Conti

Sezione Regionale di Controllo per la Calabria

NELL’ADUNANZA DEL 14 GIUGNO 2012

composta dai magistrati:

– Pres. Roberto TABBITAPresidente- Cons. Natale LONGOComponente, relatore- Ref. Massimo AGLIOCCHIComponente- Ref. Cosmo SCIANCALEPOREComponente

VISTO l’art. 100, comma 2, della Costituzione;

VISTO il Testo Unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con R.D. 12 luglio

1934, n. 1214, e successive modificazioni;

VISTA la legge 14 gennaio 1994, n. 20, recante disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti;

VISTO il regolamento (14/2000) per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, deliberato dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti in data 16 giugno 2000 e successive modifiche;

VISTA la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3;

VISTA la legge 5 giugno 2003 n. 131, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3;

VISTO il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 recante il Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali;

VISTA la deliberazione della Sezione delle Autonomie approvata nell’adunanza del 27 aprile 2004, avente ad oggetto gli indirizzi e criteri generali per l’esercizio dell’attività consultiva;

VISTA la deliberazione n.9/SEZAUT/2009/INPR della Sezione delle Autonomie approvata nell’adunanza del 4 giugno 2009 avente ad oggetto “Modificazioni ed integrazioni degli Indirizzi e criteri generali per l’esercizio dell’attività consultiva da parte delle Sezioni regionali di controllo”;

VISTA la delibera delle SS. RR. in sede di controllo n. 54/CONTR/2010;

VISTA la nota n. 81996 del 22 maggio 2012 (prot. in arrivo n. 2573 dell’01/06/2012), con la quale il Comune di Reggio Calabria ha inoltrato richiesta di parere a questa Sezione;

VISTA l’ordinanza n.22/2012 con la quale il Presidente di questa Sezione di controllo ha convocato la Sezione per l’odierna seduta;

UDITO il magistrato relatore, Cons. Natale LONGO.

FATTO

Il Sindaco del Comune di Reggio Calabria, con missiva prot. n. 0081996 del 22/05/2012 (prot. in arrivo n. 2573 dell’01/06/2012), ha richiesto a questa Sezione un parere in ordine all’interpretazione e corretta applicazione di un insieme di disposizioni normative (art. 1 comma 725 della legge 27 dicembre 2006, n. 296; art. 3, comma 44, della Legge 244/2007; art. 6, comma 6, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito nella legge 30 luglio 2010, n. 122), che impongono limiti quantitativi alla determinazione dei compensi del presidente e dei componenti del consiglio di amministrazione delle società partecipate da comuni o province, nonché delle società da quest’ultimi controllate ex articolo 2359 del codice civile.

In particolare, il comune di Reggio Calabria ha sottoposto alla cognizione di questa Corte i seguenti specifici quesiti:

  • se, per il principio di omnicomprensività posto dall’art. 1 comma 725 della legge 27 dicembre 2006, il “compenso” massimo attribuibile ex lege debba intendersi come remunerativo anche di qualsiasi attività svolta in ragione del rapporto societario, quale ad esempio quello di amministratore delegato;
  • se la legge si limiti a porre un limite quantitativo complessivo all’importo cumulativo dei compensi del presidente e degli amministratori, ovvero se prescriva anche un tetto massimo di corrispettivo riconoscibile relativamente a ciascun soggetto membro degli organi societari;
  • se, fatte salve le eventuali specifiche disposizioni statutarie che potrebbero limitare la competenza del Consiglio di Amministrazione ex art. 2389, comma 3, del codice civile, il tetto di spesa entro cui può essere esercitata la facoltà del C.d.A. di modulazione dei compensi per gli amministratori investiti di cariche particolari sia quello teorico scaturente dall’applicazione della norma di legge ovvero quello (minore) determinato in concreto, ai sensi dell’art. 2389, comma 1, del cod. civ., all’atto della nomina o dall’assemblea della società;
  • se, sempre a proposito del principio di omnicomprensività, trovi applicazione anche per le partecipate dagli enti locali la previsione di cui all’art. 3, comma 44, della Legge 244/2007, nella parte in cui stabilisce che: “Coloro che sono legati da un rapporto di lavoro con organismi pubblici anche economici ovvero con società a partecipazione pubblica o loro partecipate, collegate e controllate, e che sono al tempo stesso componenti degli organi di governo o di controllo dell’organismo o società con cui è instaurato un rapporto di lavoro, sono collocati di diritto in aspettativa senza assegni e con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza. Ai fini dell’applicazione del presente comma sono computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all’interessato a carico del medesimo o di più organismi, anche nel caso di pluralità di incarichi da uno stesso organismo conferiti nel corso dell’anno”.
  • se se si applichi, in quanto riconducibili al genus “Altre amministrazioni locali” dell’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato di cui al Comunicato ISTAT del 30-9-20, l’ulteriore limitazione dei compensi prevista dall’art. 6, comma 6, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito nella Legge 30 luglio 2010, n. 122 (riduzione del 10 per cento del compenso di cui all ‘articolo 2389, primo comma, del codice civile, dei componenti degli organi di amministrazione e di quelli di controllo), anche alle “società di capitali a partecipazione totale o di controllo degli enti locali, qualora le stesse siano affidatarie di servizi pubblici locali ovvero assolvano ad una funzione strumentale ai detti enti locali ovvero siano prevalentemente finanziati dagli stessi, cosi potendo rientrare nell’ambito degli enti per i quali è accertato il possesso dei requisiti richiesti dal Regolamento CE n. 2223/96 (SEC95 – Sistema Europeo dei Conti)”.

DIRITTO

In via preliminare, occorre innanzitutto verificare l’ammissibilità della richiesta di parere avanzata dal Sindaco del Comune di Reggio Calabria, sia dal punto di vista soggettivo, id est la legittimazione del soggetto richiedente, che da quello oggettivo, concernente l’attinenza dei quesiti alla materia della contabilità pubblica.

Sotto il profilo soggettivo, in ossequio agli indirizzi interpretativi opinati dalla Sezione delle Autonomie, pare appena il caso di evidenziare che la legittimazione attiva alla richiesta di parere debba essere “circoscritta ai soli enti previsti dalla norma, stante la natura speciale che essa assume, rispetto all’ordinaria sfera di competenze assegnate alla Corte”, tra i quali rientrano, de plano, i Comuni. Sempre sotto il profilo soggettivo, nel caso in esame, la richiesta deve ritenersi ammissibile in quanto proveniente, nelle more dell’attuazione della legge regionale 5 gennaio 2007 n. 1, istitutiva del Consiglio delle Autonomie Locali nella Regione Calabria, direttamente dal Sindaco del Comune, organo rappresentativo dell’Ente ai sensi dell’art. 50 del d. lgs 18 agosto 2000, n.267.

Sotto il profilo oggettivo, occorre evidenziare che l’attribuzione a questa Corte di competenza consultiva, recata dall’articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003, deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali. In sostanza, dunque, non può non rilevarsi come l’ordinamento giuridico, lungi dal configurare la Corte dei conti quale organo consultivo a competenza generale, circoscriva espressamente il potere-dovere di rilasciare pareri alla sola materia della “contabilità pubblica” (così testualmente l’articolo 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003).

Al riguardo, le Sezioni Riunite della Corte dei conti, intervenendo con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17, c. 31, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, hanno delineato una definizione unitaria della nozione di contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (Delibera n. 54, in data 17 novembre 2010). Per converso, la delimitazione oggettuale della funzione consultiva, come sopra delineata, induce ad escludere qualsiasi possibilità di intervento della Corte dei conti nella concreta attività gestionale ed amministrativa, che ricade nella esclusiva competenza dell’autorità che la svolge, nonchè che la funzione consultiva possa interferire in concreto con competenze di altri organi giurisdizionali.

Con specifico riferimento alla richiesta oggetto della presente pronuncia, deve ritenersi, alla luce della più recente giurisprudenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti, che i quesiti posto dal comune Reggio Calabria rivestano “carattere generale” e nel contempo rientrino nella materia della contabilità pubblica in quanto riconducibili al “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, come peraltro sancito espressamente dallaCorte costituzionale (sentenza n. 159/2008), che ha riconosciuto alla disposizione prevista dall’art. 1 comma 725 della legge 27 dicembre 2006, peraltro oggetto di deliberazioni rese in sede consultiva da parte di diverse sezioni regionali di controllo, un’”evidente attinenza con l’autonomia finanziaria” degli enti locali.

Nel merito, si osserva in limine che l’inquadramento dei primi tre quesiti sottoposti all’esame di questa Corte richiede ictu oculi una preliminare sintetica ricostruzione della normativa civilista inerente i compensi degli amministratori delle società di capitali, come disegnata dalla normativa codicistica e dalla stratificazione giurisprudenziale ordinaria.

Nel sistema civilistico, sebbene nessuna norma sancisca in maniera esplicita il principio di remunerabilità dell’ufficio, si registra una sostanziale convergenza tra dottrina e giurisprudenza sull’esistenza di una presunzione relativa di onerosità della funzione gestoria e conseguentemente nel riconoscere, anche nel silenzio dello statuto o in carenza di una specifica deliberazione, un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale in capo all’amministratore, sostanzialmente considerato alla stregua di un mandatario che agisce per conto altrui (cfr. art. 1709 c.c.).

I fondamentali riferimenti normativi in materia sono rappresentati dagli artt. 2364 e 2364-bis del codice civile, che individuano in via generale l’organo competente a determinare il compenso, nonché dagli artt. 2389 e 2409 terdecies e noviesdecies c.c., che concernono in particolare la remunerazione spettante ai componenti degli organi investiti della gestione in ciascuno dei differenti sistemi di governance societaria.

Con riferimento alla fonte della determinazione dell’emolumento, occorre innanzitutto rilevare che la normativa civilistica (artt. 2389 commi 3 e 4, 2364 comma 1 n.3, 2364 bis comma 1 n.1) riconosce allo statuto la competenza a disciplinare la materia dei compensi degli amministratori, anche con riferimento a quelli eventualmente investiti di particolari cariche.

La normativa codicistica detta altresì alcune disposizioni relativamente alla competenza societaria in materia di determinazione dei corrispettivi in favore degli amministratori delle società.

In particolare, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2364, comma primo n.3, e 2389, primo comma, del codice civile, il legislatore ha attribuito in via esclusiva all’assemblea la competenza alla determinazione dei compensi degli amministratori, nell’evidente finalità di scongiurare l’eventualità che questi ultimi possano, in situazione di oggettivo conflitto di interessi, autodeterminare in piena autonomia il loro compenso, in assenza di controllo da parte dei soci.

Peraltro, in apparente antinomia con il principio testè enunciato, il terzo comma dell’articolo 2389 c.c. attribuisce invece proprio all’organo esecutivo, seppure “sentito il parere del collegio sindacale”, la competenza a determinare la eventuale remunerazione aggiuntiva degli amministratori investiti di particolari cariche; tuttavia, a temperamento della menzionata aporia normativa e a tutela dei soci, la riforma del diritto societario ha provveduto a modificare l’ultimo comma della disposizione in questione, introducendo una prescrizione finale che consente di inserire nello statuto una clausola che assegni invece all’assemblea la facoltà di “determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori inclusi quelli investiti di particolari cariche”.

Quanto al correlato tema della quantificazione del corrispettivo, in difetto di una norma limitativa statutaria, residua in capo agli organi competenti un’ampia autonomia privata di determinazione, seppure ermeneuticamente orientata dai principi costituzionali (art. 36 Cost.) e civilistici (in particolare, l’articolo 2233 c.c. in tema di modalità di determinazione del compenso del professionista intellettuale, e l’articolo 2099 con riguardo alla retribuzione del prestatore di lavoro subordinato) in materia di remunerazione della prestazione lavorativa, in particolare autonoma.

Peculiare rilievo assume altresì la possibilità, espressamente riconosciuta dalla lettera dell’articolo 2389, comma 2, che i compensi spettanti agli amministratori siano “costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall’attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione” (c.d. stock options), modalità retributive evidentemente finalizzate ad assicurare un più intenso coinvolgimento (anzi, una più immediata comunanza di interessi) degli amministratori rispetto all’andamento dell’impresa.

Il profilo della quantificazione dei compensi degli amministratori presenta dunque tratti disciplinari peculiari sia per quanto concerne le modalità di corresponsione dei corrispettivi, che in ragione del riconoscimento normativo di ampli margini di discrezionalità, solo eventualmente delimitabile da una determinazione statutaria, sia nella quantificazione complessiva dei corrispettivi che con riguardo alla possibilità di differenziazione degli emolumenti tra i diversi componenti dell’organo esecutivo, sostanzialmente in ragione della diversità delle “deleghe” attribuibili ai diversi amministratori (si pensi, in particolare, alle figure del presidente del consiglio di amministrazione e dell’amministratore delegato).

In particolare, come già accennato, il legislatore, mediante la previsione recata dall’articolo 2389 comma 3, ha riconosciuto alle società la possibilità di differenziare le funzioni dei diversi componenti dell’organo esecutivo, e dunque conseguentemente di diversificare i compensi, innanzitutto tra i membri del consiglio di amministrazione cui vengono assegnati degli specifici compiti (art. 2381, comma 2, c.c.) e quelli invece “non operativi”, che esercitano, cioè, soltanto le funzioni attribuite collegialmente all’”esecutivo”.

Proprio con riferimento alle figure di amministratori “investiti di particolari cariche”, si è posta in dottrina e giurisprudenza la problematica della cumulabilità, nel medesimo soggetto, di funzioni e compensi di amministratore delegato e di dipendente (e in particolare di direttore generale) della medesima società.

Al riguardo, dopo un iniziale orientamento preclusivo della Corte di cassazione, dottrina e giurisprudenza (ex aliis: Cass. 24 maggio 2000, n. 6819; Cass. 17 febbraio 2000, n. 1791; Cass. 19 aprile 1999, n. 3886; ; Cass. 23 novembre 1988, n. 6310; Cass. 4 luglio 1981, n. 4373), appaiono ormai concordi, quantomeno in linea teorica, nel ritenere soggettivamente cumulabili le qualifiche di amministratore delegato e di dipendente della società, non senza tuttavia evidenziare, quale pervasivo limite all’operatività in concreto del principio, la necessità dell’effettivo riscontro della concorrente fattuale esistenza di due distinti rapporti, che abbiano ad oggetto due prestazioni ontologicamente differenti.

In dettaglio, la giurisprudenza ha ripetutamente puntualizzato come risulti, in altri termini, imprescindibile, affinché possa ricorrere il cumulo, che si riscontri in concreto la presenza di una volontà imprenditoriale autonoma, che si formi indipendentemente dalla volontà dell’amministratore-dipendente, e dunque nel contempo l’assoggettamento di quest’ultimo, pur amministratore, ad effettivo altrui potere di supremazia gerarchica e disciplinare.

Ne discende, sul terreno della verifica del contenuto della prestazione, che la medesima attività non può costituire, nel contempo, mansione tipica del rapporto di lavoro subordinato e oggetto del rapporto di amministrazione, essendo, per converso, indispensabile individuare un congruo insieme di mansioni riconducibili esclusivamente al contratto di lavoro e non anche allo svolgimento della funzione di amministratore (e dunque alla “delega” eventualmente ricevuta).

Esaminati sinteticamente i principi posti in materia dalla normativa civilistica, occorre soffermarsi sull’esame della disciplina dettata dalla finanziaria per il 2007 (art. 1 commi 725 e ss. della legge n. 296/2006), con specifico riferimento alle società partecipate da enti locali, che appare ictu oculi ispirata a principi giuridici in larga misura divergenti rispetto alla disciplina ordinaria.

Le norme menzionate si iscrivono peraltro in un più ampio orizzonte di politica legislativa, pur in qualche misura ancora disorganico e frammentario, tradottosi in un’insieme di disposizioni, talora riferite ad un’unica società di c.d. diritto singolare, talvolta, come nella specie, a determinate tipologie di società a partecipazione pubblica, riguardanti molteplici aspetti di disciplina, quali (senza pretesa di esaustività) l’obbligo di giustificare la costituzione o il mantenimento della partecipazione, i limiti nella capacità di costituzione, l’obbligo di dismissione, la scelta dei soci privati, la specificazione delle modalità di interazione fra socio e società, l’assunzione del personale, la composizione degli organi societari e, per l’appunto, la modalità di quantificazione dei compensi da corrispondere ai componenti degli organi societari.

Peraltro, pare appena il caso di evidenziare come detto orientamento di politica legislativa si sia per così dire imposto all’attenzione del legislatore in ragione del proliferare di una fenomenologia gestoria delle partecipate sovente caratterizzata dalla dequotazione del principio di economicità e dal prevalere di logiche non-market, dall’incremento esponenziale dei costi di gestione (in particolare di quelli del personale) e dalla conseguente lievitazione sia delle tariffe a carico della collettività che degli oneri a carico degli enti pubblici, fino alla non infrequente decozione delle società (con connessi problemi finanziari pubblici, occupazionali e di funzionalità dei servizi affidati).

Fenomenologia che ha invero altresì contribuito, anche sul terreno teorico-ricostruttivo, a squarciare il velo giuridico-formale della conformazione civilistico-societaria fino a consentire (ma si tratta di un percorso evolutivo ancora in fieri) di riscoprire la natura sostanzialmente pubblica dell’assetto di interessi e delle logiche gestionali delle partecipate pubbliche (quantomeno) totalitarie ed anche a rivalutare funzione e significato della stratificazione normativa di “checks and balances” caratterizzanti le regole dell’agire pubblico, che, lungi dal poter esser semplicisticamente dequalificati quali inutili orpelli lungo il virtuoso viatico verso una maggiore efficienza dall’amministrazione pubblica, finiscono per veder riaffermato il proprio ruolo di fondamentali strumenti posti a presidio della collettività amministrata.

Si afferma così, nella più recente legislazione amministrativa, un fenomeno di (ancora solo) tendenziale assimilazione delle società pubbliche agli apparati amministrativi e, conseguentemente, di assoggettamento a misure di contenimento della spesa pubblica, a regole di trasparenza e a vincoli sull’organizzazione, tra i quali possono per l’appunto esser annoverate le disposizioni in materia di limiti ai compensi spettanti ai componenti degli organi societari.

In particolare, la legge finanziaria per il 2007 diversifica la disciplina dei limiti a seconda che le società siano a totale partecipazione di comuni o province (c. 725), a totale partecipazione pubblica di una pluralità di enti locali (c. 726), o a partecipazione mista di enti locali e altri soggetti pubblici o privati (c. 728).

Non sembra, per converso assumere particolare rilievo normativo, ai fini della disciplina in questione, l’oggetto dell’attività svolta dalle partecipate, sicché deve ritenersi che le disposizioni menzionate siano de plano applicabili con riferimento a qualsivoglia partecipata dagli enti locali, indipendentemente dall’oggetto sociale perseguito.

Limitandosi, in ragione dell’oggetto dei quesiti posti, alle società a totale partecipazione di un comune ovvero di una provincia, l’articolo 1 comma 725 della legge n. 296/2006, nel testo attualmente vigente (come modificato dall’art. 61, comma 12, del D.L. n. 112 del 2008, convertito con legge n. 133 del 2008), testualmente recita: “Nelle società a totale partecipazione di comuni o province, il compenso lordo annuale, onnicomprensivo, attribuito al presidente e ai componenti del consiglio di amministrazione, non può essere superiore per il presidente al 70 per cento e per i componenti al 60 per cento delle indennità spettanti, rispettivamente, al sindaco e al presidente della provincia ai sensi dell’articolo 82 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Resta ferma la possibilità di prevedere indennità di risultato solo nel caso di produzione di utili e in misura comunque non superiore al doppio del compenso onnicomprensivo di cui al primo periodo. Le disposizioni del presente comma si applicano anche alle società controllate, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, dalle società indicate nel primo periodo del presente comma”.

Il comma successivo (comma 726 della L. 296/2006) precisa, per converso, che nelle società a totale partecipazione pubblica di una pluralità di enti locali, il compenso, “va calcolato in percentuale della indennità spettante al rappresentante del socio pubblico con la maggiore quota di partecipazione e, in caso di parità di quote, a quella di maggiore importo tra le indennità spettanti ai rappresentanti dei soci pubblici.”

Più recentemente, il legislatore è nuovamente intervenuto in materia con l’art. 6, comma 6 della legge 122/2010, di conversione del D.L. 78/2010, che ha introdotto una ulteriore riduzione addizionale del 10% del compenso degli organi di amministrazione e di quelli di controllo (determinato ai sensi del menzionato art. 2389, comma 1) anche (ma si veda ampius infra) “nelle società possedute direttamente o indirettamente in misura totalitaria dalle amministrazioni pubbliche” (sulle modalità applicative di questa ulteriore riduzione, si consulti Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Liguria, delibera n. 63/2011)

Peraltro, secondo quanto disposto dall’art. 1 comma 733 della legge n. 296/2006 e dal dall’art. 6, comma 6 della legge 122/2010, di conversione del D.L. 78/2010, le disposizioni in questione non si applicano, rispettivamente, “alle società quotate in borsa” e “alle società quotate e alle loro controllate”, tipologie societarie la cui efficienza gestionale è dunque apparsa, secondo la valutazione del legislatore, in qualche misura già sufficientemente garantita dalla disciplina specifica e dalle logiche economiche che governano i mercati finanziari regolamentati.

Pur con queste eccezioni, l’art. 1 comma 725 della legge finanziaria per il 2007 (e ss. mm.) prevede dunque una disciplina limitativa dei compensi del presidente e dei componenti del consiglio di amministrazione, percentualmente parametrata rispetto a quelli concretamente stabiliti, sulla base dei criteri individuati dalla legge (art. 82, comma 8, del Tuel e relativa normativa attuativa), per i presidenti delle provincie ovvero per i sindaci dei comuni detentori delle partecipazioni. Nel contempo, tuttavia, la medesima disposizione assicura alla società sufficienti margini di conformazione dei compensi erogabili, consentendo agli organi societari anche di valicare detti limiti, ma esclusivamente nel caso di “produzione di utili”, e “in misura comunque non superiore al doppio” dei suddetti tetti.

Si tratta, per il vero, di disposizione normativa che ha dato luogo, in dottrina e giurisprudenza, a numerose questioni applicative, inerenti, fra l’altro, l’efficacia intertemporale della norma e la sua coerenza rispetto ai principi generali dell’ordinamento civilistico e alla disciplina societaria.

Aspetto, quest’ultimo, evidentemente interrogato anche dai quesiti posti dal comune di Reggio Calabria, per la cui trattazione occorre evidentemente prendere le mosse dalla natura speciale della norma in questione, che contribuisce a determinare un concorso apparente di norme con l’ordinaria disciplina societaria evidentemente da risolvere mediante l’applicazione del principio interpretativo secondo cui lex specialis derogat generali.

La specialità della disposizione in questione, rispetto alla ordinaria disciplina societaria, si rinviene innanzitutto nell’individuazione di un tetto massimo retributivo, distintamente articolato per il presidente e per gli amministratori, pur a fronte di una normativa codicistica che per converso assegna all’autonomia privata degli organi societari la concreta determinazione dell’entità dei compensi, senza imporre limiti di sorta (fatta salva l’eventuale presenza di vincoli statutari, anch’essi però autonomamente determinati).

Tale deroga limitativa, tuttavia, lungi dal risultare incompatibile con i principi del diritto civile, appare sostanzialmente coerente con la generale regolamentazione del principio di autonomia privata (cfr: artt. 1322 c.c. e art. 1418 c.c., ove si fa menzione, in via generale, a limiti posti dalla legge), anche in ambito societario (e pur successivamente alla recente riforma del diritto commerciale), in quanto, come noto, l’autonomia imprenditoriale ben può incontrare vincoli in disposizioni normative finalizzate alla salvaguardia di interessi, pubblici o privati, diversi da quello sociale e come tali ritenuti ex lege indisponibili per la società.

La portata derogatoria della disposizione in esame si concretizza altresì con riferimento alla omogeneità del tetto massimo retributivo individuato, che non contempla diversificazioni in ragione dei contenuti delle deleghe eventualmente rilasciate in favore di amministratori, in parziale difformità rispetto alla disciplina civilistica, che invece consente differenziazioni nei compensi in regime di assenza di limiti quantitativi massimi; pertanto, anche i compensi degli amministratori eventualmente destinatari di deleghe dovranno ritenersi assoggettati ai limiti massimi retributivi previsti dalla disposizione in esame (in senso analogo la giurisprudenza unanime di questa Corte, cfr. Sezione regionale di controllo per la Toscana n. 8/2012; Sezione regionale di controllo per il Piemonte n. 29/2009; Sezione regionale di controllo per la Lombardia n. 220/2008).

Verso detto esito interpretativo orientano, per il vero, sia la chiara formulazione normativa, che, diversamente dal testo della disciplina civilistica, non contempla differenziazioni nei limiti, sia l’espressa qualificazione del limite massimo individuato quale “omnicomprensivo” (qualificazione ormai tipica nel sistema delle retribuzioni del settore pubblico), e dunque assorbente o “retributivo” di qualsivoglia conformazione delle funzioni eventualmente “delegate” a singoli amministratori.

Inoltre, occorre rilevare (argumentum a contrariis: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit) come la stessa legge n. 296/2006, all’articolo 1, comma 466 (nella sua formulazione originaria), abbia per converso espressamente previsto limiti retributivi specifici per i compensi degli amministratori investiti di particolari cariche, ma esclusivamente con riferimento alle società partecipate dal Ministero dell’economia e finanze.

Infine, pare appena il caso di rilevare (c.d. conseguentialist argument) come, diversamente opinando, si potrebbe in via di fatto agevolmente addivenire, mediante una sapiente quanto generosa distribuzione di deleghe, ad una sostanziale e sistematica elusione della portata precettiva della disposizione, e dunque alla frustrazione degli interessi perseguiti dal legislatore.

Peraltro, occorre altresì rilevare come la deroga ai principi codicistici, anche con riferimenti agli amministratori “investiti di particolari cariche”, appaia assolutamente limitata al profilo del tetto massimo retributivo, residuando in capo agli organi societari non minimali margini di differenziazione dei compensi in ragione delle concrete modalità di riparto delle deleghe, innanzitutto nell’ambito dei limiti massimi espressamente previsti, ovvero anche oltre, ma soltanto nell’ipotesi che la società faccia registrare utili e “comunque“in misura non superiore al doppio” dei suddetti tetti-base.

Parimenti, residua in capo agli organi societari (assemblea) la possibilità di individuare, previa previsione statutaria, ulteriori (e necessariamente inferiori rispetto a quelli legali) limiti quantitativi ai corrispettivi erogabili agli amministratori, in applicazione del generale principio posto dall’articolo 2389, comma 3, del codice civile.

Per quanto concerne invece la fattispecie, frequente in materia societaria, di cumulo, nello stesso soggetto delle funzioni di amministratore (anche con particolari incarichi) e della qualifica di dipendente o prestatore di lavoro (compreso quello di direttore generale[1]), occorre evidenziare che il legislatore, diversamente che per il regime ordinario, ha dettato una specifica disposizione in materia di società partecipate da enti pubblici, id est l’articolo 3, comma 44 della legge n. 244/2007, sostanzialmente applicativa del già menzionato principio di omnicomprensività, che ha espressamente escluso la possibilità del contemporaneo espletamento del doppio incarico e dunque della duplicazione dei compensi. La menzionata disposizione prevede infatti che “Coloro che sono legati da un rapporto di lavoro con organismi pubblici anche economici ovvero con società a partecipazione pubblica o loro partecipate, collegate e controllate, e che sono al tempo stesso componenti degli organi di governo o di controllo dell’organismo o società con cui e’ instaurato un rapporto di lavoro, sono collocati di diritto in aspettativa senza assegni e con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza”.

Tale norma, che attiene alla materia del diritto civile ex art. 117, comma 2, Cost., deve evidentemente ritenersi applicabile, in ragione dell’ampia formulazione impiegata con riferimento all’ambito soggettivo di applicazione (“organismi pubblici” ovverosocietà a partecipazione pubblica o loro partecipate, collegate e controllate”), pure con riferimento agli enti locali, come peraltro espressamente ritenuto anche dalla circolare 30 aprile 2008, n. 6, della Presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento della funzione pubblica.

In proposito, appare significativo evidenziare (argumentum a contrariis) il più circoscritto ambito soggettivo di applicazione disegnato dal medesimo art. 3, comma 44, della legge n. 244/2007 (e del DPR applicativo n. 195/2010) ai fini della individuazione del limite massimo retributivo, che la legge finanziaria per il 2008, diversamente che per il divieto di cumulo con rapporti di lavoro e la connessa aspettativa di diritto e senza assegni, riferisce esclusivamente alle “pubbliche amministrazioni statali di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, agenzie, enti pubblici anche economici, enti di ricerca, università, società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica nonché (al)le loro controllate”.

In sostanza, il legislatore della finanziaria per il 2008 per un verso ha dettato una disciplina limitativa dei compensi relativa esclusivamente al settore (seppure inteso in senso ampio) statale, essendo già in vigore per le partecipate locali quella introdotta dall’art. 1 commi 725 e ss. della legge n. 296/2006 (v. corte sei conti, se. Controllo Lazio, delibera n. 18/2011), e nel contempo ha ritenuto di dover disciplinare ex novo anche il profilo del cumulo con rapporti di lavoro, non regolamentato dalle menzionate disposizione della finanziaria per il 2007, (e dunque) relativamente a tutto il settore pubblico, enti locali compresi.

Un regime sostanzialmente analogo, quoad effectum, di divieto di cumulo dei compensi viene inoltre disposto dalla legge per l’ipotesi di cointestazione, in capo al medesimo soggetto, delle funzioni di amministratore di ente locale e di società partecipata; l’articolo 1, comma 718 della legge n. 296/2006 prevede infatti che “Fermo restando quanto disposto dagli articoli 60 e 63 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, l’assunzione, da parte dell’amministratore di un ente locale, della carica di componente degli organi di amministrazione di società di capitali partecipate dallo stesso ente non dà titolo alla corresponsione di alcun emolumento a carico della società”.

Quanto all’ulteriore quesito posto dall’ente, concernete la possibilità di intendere il limite quantitativo dei compensi erogabili, piuttosto che come analiticamente differenziato per il presidente e i singoli membri del consiglio di amministrazione, quale tetto cumulativo implicito entro il quale liberamente conformare i corrispettivi (eventualmente anche oltrepassando il tetto categoriale previsto dalla norma per uno o più componenti), occorre innanzitutto rilevare, sul terreno dell’interpretazione testuale, che la norma, lungi dal configurare la soglia in maniera indistinta, espressamente parametra in maniera analitica il limite retributivo, partitamente per il presidente e per i membri del consiglio di amministrazione.

E pare inoltre conferente evidenziare come analoga tecnica di determinazione analitica e differenziata dei limiti ai compensi sia stata altresì seguita dal legislatore, oltre che nel testo originario della disposizione, anche in quello novellato per mano dell’art. 61, comma 12, del D.L. n. 112 del 2008 (convertito con legge n. 133 del 2008).

Ancora, sempre adoperando una tecnica di tipizzazione di tipo selettivo, il legislatore, nella medesima finanziaria per il 2007, ha altresì previsto (art. 1 comma 729 della legge n. 296/2006) un numero massimo inderogabile dei componenti del consiglio di amministrazione.

Peraltro, lungi dal poter considerare accidentali tali evidenze, occorre in via generale rilevare, sul terreno delle tecniche della normazione impiegate in materia di riduzione della spesa pubblica (con particolare riguardo ai settori del pubblico impiego e dei c.d. costi della politica), che alla tradizionale modalità di contenimento basata su tetti di spesa complessivamente riferiti ad enti od organi unitariamente considerati, si sono progressivamente affiancate, in ragione della constatata loro inadeguatezza-insufficienza, modalità di decurtazione maggiormente selettive, calibrate su singole tipologie di rapporti ovvero di titoli di spesa (o addirittura sul singolo rapporto di lavoro; cfr. art. 9 d.. l. n. 78/2010), ispirate all’intento di assicurare politiche di riduzione della spesa pubblica più incisive e nel contempo anche potenzialmente meno inique nella distribuzione delle pubbliche risorse.

Dall’esame della norma emerge, in altri termini, come una delle finalità perseguite dal legislatore con la disposizione in esame, ma anche con le sue modifiche (art. 61, comma 12, del D.L. n. 112 del 2008, convertito con legge n. 133 del 2008; art. 6, comma 6 del D.L. 78/2010, convertito nella legge 122/2010), sia evidentemente anche quella di stabilire un tetto massimo retributivo categoriale-individuale per i compensi, ritenuto necessario e socialmente equo nell’ambito di una generale politica di riduzione della spesa pubblica e dei c.d. costi della politica, per ciascuno dei soggetti incaricati di svolgere le funzioni, rispettivamente, di presidente e di componente del consiglio di amministrazione delle partecipate dagli enti locali, e non soltanto quella più generale di contenimento delle spese complessive delle società o dei costi del CDA globalmente inteso.

Finalità quest’ultima peraltro più semplicisticamente perseguibile dal legislatore, almeno in via teorica, mediante la mera individuazione di un tetto complessivo di spesa, e invece più propriamente conseguita, nella trama normativa vigente, mediante il combinato disposto delle menzionate disposizioni sui compensi, della norma (comma 729 dell’articolo 1 della legge n. 296/2006) che ha introdotto un numero massimo di componenti l’organo e di ulteriori e selettive disposizioni normative (tra le quali quelle richiamate in materia di omnicomprensività e di divieto di cumulo di compensi per gli amministratori locali e societari).

Pertanto, alla luce dei dati testuali e del disegno sistematico complessivo degli interventi legislativi in materia di compensi per gli amministratori delle partecipate dagli enti locali, La Sezione (in senso analogo, Sezione regionale di controllo per la Liguria n.63/2011; in senso contrario: Sezione regionale di controllo per il Piemonte n. 29/2009) ritiene che non sia ermeneuticamente plausibile forzare il pur chiaro e specifico dato letterale dell’articolo 1 comma 725 della legge finanziaria per il 2007 fino al punto di ritenere sostanzialmente enucleabile un limite complessivo di spesa, pur non testualmente previsto, entro il quale poter liberamente calibrare i corrispettivi individuali finanche violando, seppure solo per una parte dei membri dell’organo, il tetto invece analiticamente e testualmente modulato dalla norma per categorie di componenti.

Rimane da affrontare l’ulteriore quesito posto dal comune di Reggio Calabria, concernente l’interpretazione dell’articolo 6, comma 6, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito nella Legge 30 luglio 2010, n. 122, a norma del quale: “Nelle società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo I della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché nelle società possedute direttamente o indirettamente in misura totalitaria, alla data di entrata in vigore del presente provvedimento, dalle amministrazioni pubbliche, il compenso di cui all’articolo 2389, primo comma, del codice civile, dei componenti degli organi di amministrazione e di quelli di controllo è ridotto del 10 per cento. La disposizione di cui al primo periodo si applica a decorrere dalla prima scadenza del consiglio o del collegio successiva alla data di entrata in vigore del presente provvedimento. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società quotate e alle loro controllate“. In particolare, il comune interroga sulla possibilità di ritenerericomprese nella voce “Altre amministrazioni locali” dell’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, di cui al Comunicato ISTAT del 30-9-2011, anche “le società di capitali a partecipazione totale o di controllo degli enti locali, qualora le stesse siano affidatarie di servizi pubblici locali ovvero assolvano ad una funzione strumentale ai detti enti locali ovvero siano prevalentemente finanziati dagli stessi, cosi potendo rientrare nell’ambito degli enti per i quali è accertato il possesso dei requisiti richiesti dal Regolamento CE n. 2223/96 (SEC95 – Sistema Europeo dei Conti)”.

In proposito, deve innanzitutto evidenziarsi, in via di prima approssimazione alla trattazione della quaestio, che, secondo le disposizioni recate dall’art. 1 comma 2 della legge n. 196/2009 (sia nell’originaria che nell’attuale versione), l’”elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato”, deve essere redatto dall’Istat, “sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti comunitari”.

Orbene, in ambito comunitario, il fondamentale parametro classificatorio è costituito dal regolamento n. 2223/1996/CE (e ss. mm.), fonte normativa che non riguarda evidentemente la sola contabilità e finanza pubblica, ma ha oggetto l’intero sistema economico europeo (c.d. SEC, “Sistema europeo dei conti nazionali e regionali”), ovvero il “sistema contabile comparabile a livello internazionale che descrive in maniera sistematica e dettagliata il complesso di una economia (ossia una regione, un paese o un gruppo di paesi), i suoi componenti e le sue relazioni con altre economie”. Si tratta, in buona sostanza, di un insieme di regole tecniche e metodologiche cui il paesi europei debbono uniformare le rispettive statistiche sulla situazione dell’intera economia (privata e pubblica) di ogni singolo Stato.

Sebbene il regolamento costituisca un fondamentale criterio interpretativo della legislazione interna (c.d. interpretazione comunitariamente orientata), nonché, per quanto concerne l’Italia, oggetto di espresso richiamo in alcune disposizioni normative interne (tra le quali per l’appunto la menzionata norma della legge n. 196/2009), pare quanto mai opportuno rilevare che la fonte comunitaria, secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 3, “non obbliga alcuno Stato membro ad elaborare per le proprie esigenze i conti in base al SEC 95”.

In disparte eventuali vincoli discendenti da diverse disposizioni comunitarie[2], rimane dunque ferma la possibilità, per ciascun stato membro dell’Unione, di impiegare, nella legislazione interna e al di fuori di procedimenti coinvolgenti organi comunitari, nozioni diverse e più ampie (anche) relativamente al settore pubblico, funzionali ad un più incisivo contenimento della spesa pubblica.

Per quel che rileva in questa sede, occorre rilevare che il regolamento comunitario sul SEC 95 segmenta l’intera economia in una pluralità di “settori” e “sottosettori istituzionali” (cap. 2°): tra i “settori istituzionali” sono incluse le “Società non finanziarie” (S.11), le “Società finanziarie” (S.12), “le Amministrazioni pubbliche” (S.13), le “Famiglie” (S.14), le “Istituzioni senza scopo di lucro” (S.15).

Per quanto più specificamente concerne il settore delle “amministrazioni pubbliche” (S.13), il paragrafo 2.68 precisa ulteriormente che esso comprende tutte le “unità istituzionali” che agiscono da “produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita … , la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese”.

Il paragrafo 2.69, infine, scendendo più in dettaglio, nel contemplare “gli organismi pubblici … che gestiscono e finanziano un insieme di attività, principalmente consistenti nel fornire alla collettività beni e servizi non destinabili alla vendita” ([3]), per un verso riconduce al genus categoriale “le istituzioni senza scopo di lucro dotate di personalità giuridica che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita”, a condizione che siano “controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni pubbliche”, ma nel contempo espressamente esclude dal settore delle “amministrazioni pubbliche” (settore S.13) “i produttori pubblici aventi la forma di società di capitali pubbliche o dotati, in forza di una normativa specifica, di personalità giuridica, e le quasi-società ([4]), allorché sono classificate nei settori delle società finanziarie o non finanziarie”.

Più in dettaglio, il “settore delle amministrazioni pubbliche comprende quattro sottosettori, le amministrazioni centrali (S.1311), le amministrazioni di Stati federati (S.1312), le amministrazioni locali (S.1313) e gli enti di previdenza e assistenza sociale (S.1314).

Per quanto più specificamente concerne il sottosettore delle amministrazioni locali, il regolamento comunitario vi ricomprende (2.73) “gli enti pubblici territoriali la cui competenza si estende a una parte soltanto del territorio economico esclusi gli enti locali di previdenza e assistenza sociale”, nonché “le istituzioni senza scopo di lucro controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni locali, la cui competenza è limitata al territorio economico di tali amministrazioni”, e dunque non anche, coerentemente con la definizione generale del settore, le persone giuridiche aventi scopo di lucro.

Il regolamento specifica altresì (cfr. paragrafo 2.26) che “Per «controllo di una società» si intende la capacità di determinarne la politica generale, se necessario scegliendone gli amministratori. Una unità istituzionale — un’altra società, una famiglia o una unità delle amministrazioni pubbliche — esercita il controllo su una società quando detiene la proprietà di più della metà delle azioni con diritto di voto o controlla in altro modo più della metà dei voti degli azionisti. Inoltre, una amministrazione pubblica può esercitare il controllo su una società in forza di leggi o regolamenti che le danno il diritto di determinare la politica della società o di nominarne gli amministratori”.

Tuttavia, pare opportuno evidenziare come l’ambito oggettivo pubblico, nella sistematica del regolamento comunitario sul SEC, non si esaurisca nel “settore delle amministrazioni pubbliche” (S.13), soprattutto ([5]) in quanto viene testualmente previsto, pur collocato nell’ambito del settore delle “Società non finanziarie” (S.11), uno specifico sottosettore denominato “Società non finanziarie pubbliche” (S.11001), che testualmente comprende “tutte le società e le quasi-società non finanziarie soggette al controllo di amministrazioni pubbliche”.

Pertanto, avendo a riferimento la classificazione operata, a fini statistici, dal regolamento comunitario sul SEC 95, può affermarsi che le società (a fini di lucro) partecipate dagli enti locali, pur non essendo riconducibili al genus denominato “settore delle amministrazioni pubbliche” – sottosettore delle “amministrazioni locali”, sono comunque di norma classificabili nel novero del sottosettore delle “società non finanziarie pubbliche”, ovviamente subordinatamente al ricorrere in concreto di un rapporto intersoggettivo di “controllo” con un’amministrazione pubblica, per come definito dalla menzionata disposizione comunitaria.

Una volta chiarito come, nella logica della classificazione statistica posta dalla menzionata normativa comunitaria, il “settore delle amministrazioni pubbliche” non esaurisca il più vasto ambito dell’universo giuridico-gestionale pubblico, può forse meglio comprendersi l’evoluzione della disciplina interna che a quella comunitaria espressamente si richiama, con particolare riguardo per il già menzionato art. 1, comma 2, della legge n. 196/2009.

Detta disposizione, nella sua versione testuale originaria, prevedeva infatti che “per amministrazioni pubbliche si intendono gli enti e gli altri soggetti che costituiscono il settore istituzionale delle amministrazioni pubbliche individuati dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti comunitari”; vi era dunque un esplicito rinvio al settore delle “amministrazioni pubbliche” per come determinato dai regolamenti sul SEC, relatio che evidentemente lasciava tendenzialmente fuori dalla nozione (e dunque dall’ambito soggettivo di applicazione della norma interna) tutte gli enti pubblici diversi da quelli riconducibili al settore S.13, e in particolare quelli sussumibili nel sottosettore delle “società non finanziarie pubbliche” (e dunque le società partecipate dagli enti pubblici), eventualmente afferenti al diverso settore statistico delle società non finanziarie (S11).

Ovviamente, tenuto conto delle esigenze finanziarie pubbliche, della significativa fenomenologia societaria “pubblica” e della stessa sfumata espressione letterale (“sulla base”) contenuta nella norma, non doveva evidentemente ritenersi del tutto preclusa l’inclusione di società a scopo di lucro nell’elenco Istat (anzi successivamente riconosciuta esplicitamente dallo stesso legislatore, cfr: art. 6, commi 6 e 11, art. 9, comma 29 del d.l. n.78/2010), e tuttavia la sistematica comunitaria presa a modello dalla normativa interna orientava evidentemente l’interprete nel senso della residualità o eccezionalità dell’assimilazione (e dell’intervento di finanza pubblica), da intendersi quale soluzione legislativa – amministrativa, per così dire, extra ordinem del policy maker.

Tuttavia, di recente, l’art. 5, comma 7, D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44) ha apportato significative modifiche al testo dell’art. 1, comma 2, della legge n. 196/2009, la cui versione attualmente vigente testualmente dispone: “Ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono, per l’anno 2011, gli enti e i soggetti indicati a fini statistici nell’elenco oggetto del comunicato dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) in data 24 luglio 2010, pubblicato in pari data nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 171, nonche’ a decorrere dall’anno 2012 gli enti e i soggetti indicati a fini statistici dal predetto Istituto nell’elenco oggetto del comunicato del medesimo Istituto in data 30 settembre 2011, pubblicato in pari data nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 228 e successivi aggiornamenti ai sensi del comma 3 del presente articolo, effettuati sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti dell’Unione europea………”.

Come pare evidente dal raffronto testuale tra le diverse versioni della norma, il legislatore, in un contesto di inasprimento delle esigenze di contenimento della spesa pubblica, latamente intesa, ha ritenuto di dover riformulare la disposizione, prevedendo una nozione estremamente ampia di “amministrazione pubblica”,nel contempo svincolata dalla relatio allo specifico “settore” statistico SEC S.13 ma insieme pur sempre ancorata al riferimento normativo comunitario e dunque tendenzialmente comprensiva anche del sottosettore S.11001 “Società non finanziarie pubbliche” (e più in generale degli altri sottosettori comprendenti soggetti pubblici).

Per giunta, appare estremamente significativo rilevare come la novella del 2012 assurga la rinnovata e omnicomprensiva definizione di “amministrazioni pubbliche” a nozione e riferimento di portata tendenzialmente generale “in materia di finanza pubblica”, funzionale ad un più incisivo e consapevole (tenuto conto della portata quali-quantitativa del fenomeno delle partecipazioni pubbliche in società) intervento di contenimento della spesa pubblica del settore pubblico complessivamente inteso.

In questo quadro ricostruttivo, pare altresì opportuno accennare alla natura dell’attività dell’Istat (costitutiva ovvero ricognitiva) e dunque agli effetti dell’inclusione negli elenchi di enti e società.

In tema, occorre innanzitutto rilevare, sul terreno dell’interpretazione testuale, che la già menzionata novella del 2012 ha sostituito, nel testo dell’articolo 1, comma 2, della legge n. 196/2009, all’espressione “enti individuati” quella più sfumata di “enti indicati a fini statistici”, lasciando intendere la natura meramente acclarativa, e non certo costitutiva, dell’attività svolta dall’Istat, confermata peraltro dalle modalità di rinvio al criterio normativo di riferimento (“sulla base” delle definizioni di cui agli specifici regolamenti comunitari) e soprattutto dall’espressa qualificazione in termini “ricognitivi” contenuta nel successivo comma 3 del menzionato art. 1.

Peraltro, anche sul piano dell’interpretazione teleologica, ancorare la riconduzione al genus categoriale al dato sostanziale, piuttosto che ad una ricognizione meramente formale operata a fini eminentemente statistici (non a caso l’elenco è, per sua natura, normativamente soggetto a periodici aggiornamenti), appare maggiormente coerente rispetto alle finalità di contenimento della spesa pubblica perseguite dal legislatore (v. Corte conti, sez. controllo Toscana, n. 12/2011).

Infine, si osserva come non si riveli per converso persuasivo subordinare l’efficacia di disposizioni di contenimento della spesa pubblica ad un’attività ricognitiva che, sebbene svolta da un ente pubblico, finisce inevitabilmente per dipendere anche (decreto legislativo 6 settembre 1989, n. 322, artt. 7 e 11) dall’adempimento, da parte dei soggetti interessati, dell’obbligo di fornire all’Istat tutti i dati richiesti per le rilevazioni previste dal programma statistico nazionale (v. Corte conti, sez. controllo Piemonte, n. 56/2011).

Ricostruita la disciplina in materia di enti da ricondurre alla nozione di “amministrazioni pubbliche” “ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica” (art. 1 legge n. 196/2009), e dunque da includere nella ricognizione di competenza dell’Istat, occorre conseguentemente enucleare l’ambito oggettivo di applicazione dell’articolo 6, comma 6, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito nella Legge 30 luglio 2010, n. 122, norma che testualmente impone una riduzione del 10% del compenso di cui all’articolo 2389, primo comma, del codice civile, per i componenti degli organi di amministrazione e controllo di due categorie di soggetti giuridici, id est le “società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo I della legge 31 dicembre 2009, n. 196” e le “società possedute direttamente o indirettamente in misura totalitaria, alla data di entrata in vigore del presente provvedimento dalle amministrazioni pubbliche”.

La norma, al tempo della sua entrata in vigore, prevedeva dunque un ambito soggettivo sostanzialmente atipico (in senso ampliativo) rispetto a quello ordinariamente contemplato nella legge di contabilità e finanza pubblica, disegnato dal testo pro tempore vigente dell’articolo 1 comma 2 della legge n. 196/2009. Tale ultima disposizione si caratterizzava infatti per il riferimento tendenzialmente pervasivo (salva la possibilità per l’ordinamento interno di introdurre eccezioni, non avendo il regolamento SEC disposto la vincolatività delle classificazioni per gli stati membri) al settore statistico delle “amministrazioni pubbliche” per come determinato dai regolamento CE n.2223/1996, che, come già riferito, non comprende persone giuridiche aventi finalità lucrative.

Tuttavia, il legislatore del 2010, consapevole delle refluenze sulla finanza pubblica delle vicende gestionali delle partecipate pubbliche, ha per un verso assentito, seppure in via “eccentrica”, l’inserimento di “società” nell’elenco Istat e dunque nel conto consolidato della pubblica amministrazione, ricavandone addirittura un autonomo ambito oggettivo di intervento di finanza pubblica (v. art. cfr: art. 6, commi 6 e 11, art. 9, comma 29 del d.l. n.78/2010), e nel contempo ha imposto, in senso ulteriormente estensivo, l’operatività della decurtazione del compenso anche per le “società possedute direttamente o indirettamente in misura totalitaria, alla data di entrata in vigore del presente provvedimento dalle amministrazioni pubbliche”, indipendentemente dall’inclusione negli elenchi Istat (cui di norma avrebbero dovuto, al tempo, essere estranee) e dunque nel conto consolidato della pubblica amministrazione.

Tuttavia, la sopravvenuta (e già descritta) modifica normativa del testo dell’art. 1, comma 2, della legge n. 196/2009, con il superamento del pervasivo-limitativo riferimento al settore statistico S13 ai fini degli interventi di finanza pubblica, suggeriscono all’interprete una rivisitazione sistematico-evolutiva della portata della disposizione in esame, che prenda le mosse dall’attuale generica relatio alla normativa comunitaria e dunque al complesso dei settori statistici disciplinati dal regolamento comunitario SEC astrattamente riferibili alla gestione pubblica, e dunque tendenzialmente comprensivi anche del sottosettore S.11001 “Società non finanziarie pubbliche”.

In sostanza, nel novero delle le “società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica”, (rectius: da individuare e inserire, stante la natura ricognitiva dell’attività dell’Istat) ex art. 6, comma 6, del D.L. 31.05.2010, sembrano potersi ricomprendere (si confronti: Corte dei conti, sezione controllo Piemonte n. 56/2011) tutti i soggetti pubblici menzionati nel regolamento SEC, e dunque anche le “Società non finanziarie pubbliche”, ovvero, secondo la definizione comunitaria (da intendersi richiamata nella norma interna, come modificata), tutte le “società e le quasi-società non finanziarie (non solo interamente partecipate da, ma anche solo) soggette al controllo di amministrazioni pubbliche”.

Si soggiunge, in limine, che detto esito interpretativo, pur conseguito sul terreno dell’evoluzione della normativa in materia di interventi di finanza pubblica, pare altresì significativamente corroborato dall’evoluzione ordinamentale del connesso settore dei bilanci pubblici, nell’ambito del quale si assiste ad una sostanziale e progressiva valorizzazione del bilancio consolidato dell’ente pubblico, necessariamente rappresentativo anche delle vicende gestionali dei soggetti (comprese le società) “satellite” delle amministrazioni pubbliche, tanto in ambito comunitario (da ultimo, si veda la Direttiva 2011/85/UE del Consiglio, dell’ 8 novembre 2011, relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri)[6] quanto nazionale, sia a livello statale (art. 2 legge 169/2009; art. 18 d.lgs. n. 91/2011) che locale (in particolare, artt. 11 e 32 d.lgs. n.118/2011).

P.Q.M.

Nelle suesposte considerazioni è il parere della Sezione.

Così deciso in Catanzaro il 14 giugno 2012.

Il Relatore Il Presidente

Dott. Natale Longo Dott. Roberto Tabbita

Depositata in segreteria il 14 giugno 2012

Il Direttore della segreteria F.F.

Dott. Elena Russo

[1] La dottrina e la giurisprudenza prevalenti, tanto più alla luce del nuovo testo dell’articolo 2396 (ove si fa menzione del “rapporto di lavoro con la società”), tradizionalmente ritengono di riconoscere al direttore generale la posizione di lavoratore subordinato apicale della società. Si vedano, tra le altre; Cass. 14 luglio 1993 n. 7796; Cass. 4 giugno 1981 n. 3614;; Cass. 10 gennaio 1987, n. 8279. Nel senso che il direttore generale possa anche non esser legato alla società da un rapporto di lavoro subordinato, Cass. 14 luglio 1993 n. 7796 e Cass. 4 giugno 1981 n. 3614). Per una rassegna delle opinioni in merito, si veda Cass. 5 dicembre 2008, n. 28819.

[2] Si veda, ad esempio, l’articolo 8 del regolamento 3605/93, che impone l’adozione delle classificazioni contenute nel regolamento SEC ai fini dell’applicazione del protocollo per i disavanzi eccessivi.

[3] La produzione di beni e servizi destinabili alla vendita è la produzione venduta ad almeno il 50% dei costi di produzione (§3.43).

L’unità istituzionale considerata, in base al criterio del 50%, produttore di beni e servizi destinabili alla vendita va classificata nei settori delle società finanziarie e non finanziarie. Il criterio del 50% determina anche se una unità della pubblica amministrazione debba essere considerata quasi-società di proprietà delle amministrazioni pubbliche (si ha una quasi-società solo allorché è soddisfatto il criterio del 50%).

[4] Le quasi società sono prive di personalità giuridica, ma caratterizzate da una contabilità completa cfr. § 2.13 lett F.

[5] L’ambito gestionale pubblico comprende altresì soggetti riconducibili al settore SEC S.12 società finanziarie, con riguardo ai sottosettori S.12201, S.12301, S.12401 e S.12501.

[6] La direttiva prevede che (considerato n. 25) “Per promuovere efficacemente la disciplina di bilancio e la sostenibilità delle finanze pubbliche, occorre che i quadri di bilancio riguardino tali finanze nella loro totalità. Per questa ragione è opportuno riservare particolare attenzione alle operazioni di organismi e fondi dell’amministrazione pubblica che non rientrano nei bilanci ordinari a livello di sottosettori che hanno un impatto immediato o a medio termine sulle posizioni di bilancio degli Stati membri. La loro incidenza combinata sui saldi e il debito dell’amministrazione pubblica dovrebbe essere presentata nel quadro dei processi di bilancio annuali e dei piani di bilancio a medio termine”.