Enti locali: sulla possibilità o meno dell'ente locale - socio di maggioranza - di accollarsi il mutuo della società partecipata

NOTA

Il parere in rassegna si pronuncia sulla possibilità o meno del Comune – socio di maggioranza in una società mista – di procedere all’accollo dei mutui contratti dalla società per la ristrutturazione di un immobile di proprietà del Comune medesimo.

Sul tema v. anche, in questa rassegna, Corte conti – sez. contr. Emilia-Romagna – parere 28 novembre 2012 n. 487.

Sui limiti della traslazione di debiti della società in house in liquidazione all’ente locale e sui limiti dell’utilizzo di proventi di alienazioni immobiliari per mantenere gli equilibri di bilancio v., in questa rassegna, Corte conti – sez. contr. Veneto – parere 28 novembre 2012 n. 980 e Corte conti – sez. contr. Veneto – parere 9 luglio 2012 n. 434

La Sezione risponde altresì al quesito relativo alla possibilità di procedere ad estinzione anticipata del mutuo contratto dalla società partecipata con l’avanzo non vincolato.

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Lombardia/535/2012/PAR

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE DEI CONTI

IN

SEZIONE REGIONALE DI CONTROLLO PER LA

LOMBARDIA

composta dai Magistrati:

dott. Nicola Mastropasqua Presidente

dott. Gianluca Braghò Primo Referendario

dott. Alessandro Napoli Referendario

dott.ssa Laura De Rentiis Referendario

dott. Donato Centrone Referendario

dott. Francesco Sucameli Referendario (relatore)

dott. Cristiano Baldi Referendario

dott. Andrea Luberti Referendario

nella camera di consiglio del 11 dicembre 2012

Visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con il regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, e successive modificazioni;

Vista la legge 21 marzo 1953, n. 161;

Vista la legge 14 gennaio 1994, n. 20;

Vista la deliberazione delle Sezioni riunite della Corte dei conti n. 14 del 16 giugno 2000, che ha approvato il regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, modificata con le deliberazioni delle Sezioni riunite n. 2 del 3 luglio 2003 e n. 1 del 17 dicembre 2004;

Visto il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (T.U.E.L.);

Vista la legge 5 giugno 2003, n. 131;

Vista la deliberazione n. 1/pareri/2004 del 3 novembre 2004 con la quale la Sezione ha stabilito i criteri sul procedimento e sulla formulazione dei pareri previsti dall’articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003;

Vista la nota n. 40019 pervenuta in data 19 novembre 2012, con la quale il Comune di Lissone (MB) ha chiesto un parere nel quadro delle competenze attribuite alla Corte dei conti dalla legge n. 131 del 2003;

Vista l’ordinanza con la quale il Presidente ha convocato la Sezione per l’adunanza odierna per deliberare sulla prefata richiesta;

Udito il relatore, Francesco Sucameli.

OGGETTO DEL PARERE

Con la nota indicata in epigrafe, il sindaco di Lissone (MB) ha chiesto alla Sezione di rendere parere in ordine alla possibilità del Comune – socio di maggioranza in una società mista, la Progetto Lissone S.p.a ( di cui possiede il 56,67%) – di procedere all’accollo dei mutui contratti dalla società per la ristrutturazione di un immobile di proprietà del Comune medesimo.

La società in questione ha per oggetto sociale «[…] la promozione, l’organizzazione ed il coordinamento, sia in Italia che all’estero, di ogni iniziativa tendente a potenziare le attività economiche locali, nell’interesse di imprese o di associazioni legate alla produzione ed alla commercializzazione del mobile e delle attività indotte, collaterali ed affini» (art. 3 Statuto).

La menzionata operazione di ristrutturazione costituisce parte degli impegni assunti dalla Società nell’ambito dell’accordo per l’istituzione della “Fondazione Colore”. Tale fondazione è stata istituita dal Comune insieme alla società “Progetto Lissone” nel 2009; l’accordo che ha preceduto la nascita del nuovo ente prevedeva, da un lato, l’obbligo per il Comune di conferire in comodato l’uso dell’immobile alla nuova fondazione; la Società, per contro, si impegnava a realizzare gli interventi sull’immobile medesimo.

L’immobile a seguito degli interventi di ristrutturazione è stato adibito, come da accordi, a sede della “Fondazione Colore”.

Nella richiesta di parere si osserva come tale operazione, da un lato, abbia arricchito il Comune senza alcuna contropartita, salvo il limitato sacrificio del mancato uso di un immobile, a suo tempo fatiscente; dall’altro, la Società, co-partecipata con privati, si è fatta carico dell’indebitamento, che ora grava in modo non più sostenibile sul suo bilancio, tanto che essa rischia di andare in crisi di liquidità con la necessità di procedere a liquidazione della stessa.

Pertanto, il Comune (il cui indebitamento attuale è inferiore all’1% delle entrate correnti) riterrebbe opportuno procedere ad un’operazione giuridica di accollo del mutuo contratto per finanziare la ristrutturazione, ai sensi dell’art. 1273 c.c.

Tale operazione – avverte l’Amministrazione civica – sarebbe preceduta da una previa stima dell’incremento di valore dell’immobile ristrutturato e dalla verifica della sussistenza dei mezzi finanziari per l’accollo; inoltre successivamente all’assunzione del debito l’Amministrazione intende provvedere all’estinzione del mutuo con l’avanzo non vincolato.

A seguito di ciò, il Comune revocherebbe il comodato, mentre la “Fondazione Colore” troverebbe ospitalità presso un immobile reso disponibile da “Progetto Lissone” .

Tutto ciò premesso il Comune chiede:

  1. i. se sia legittimo che il Comune si accolli, ai sensi dell’art. 1273 c.c., il capitale residuo dei mutui contratti dalla società partecipata, “cogliendo lo spirito della recentissima normativa in tema di abbattimento di debito da parte di enti pubblici” (art. 16, comma 6-bis, D.L. n. 95/2012 come introdotto dall’art. 8, comma 3, D.L. 174/2012);
  2. ii. se sia legittimo, una volta proceduto all’accollo dei mutui (nel rispetto dei limiti di indebitamento di cui all’art. 204, comma 1, del D.Lgs. 267/2000, c.d. T.U.E.L.), procedere all’estinzione anticipata degli stessi mediante utilizzo dell’avanzo di amministrazione non vincolato.

PREMESSA

La funzione consultiva delle Sezioni regionali è inserita nel quadro delle competenze attribuite alla Corte dei conti dalla legge n. 131 del 2003 (recante la disciplina d’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

Pertanto, la prima questione che si pone, riguardo al descritto quesito, è quella del rispetto delle condizioni di legge per accedere alla funzione consultiva della Corte. A tal fine si rammenta che ai sensi dell’art. 7, comma 8, della citata legge n. 131 del 2003, Regioni, Province e Comuni possono chiedere alle Sezioni regionali – di norma tramite il Consiglio delle autonomie locali, se istituito – pareri in materia di contabilità pubblica, nonché ulteriori forme di collaborazione ai fini della regolare gestione finanziaria, dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.

AMMISSIBILITÀ SOGGETTIVA

Con particolare riguardo all’individuazione dell’organo legittimato a inoltrare le richieste di parere dei Comuni, si osserva che, per consolidata giurisprudenza, gli enti elencati dalla legge possono rivolgersi direttamente alla Corte in funzione consultiva, senza passare necessariamente dal Consiglio delle autonomie locali.

Poiché il sindaco è, nel periodo del suo incarico, l’organo istituzionalmente legittimato a rappresentante l’ente, la richiesta di parere è proposta dall’organo legittimato a proporla ed è pertanto soggettivamente ammissibile.

AMMISSIBILITÀ OGGETTIVA

Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo di ammissibilità del quesito, in premessa occorre rammentare che la disposizione contenuta nell’art. 7, comma 8, della Legge 131/2003 deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali.

Lo svolgimento delle funzioni è qualificato dallo stesso legislatore come una forma di controllo collaborativo.

Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma, rese esplicite, in particolare, con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere pareri in materia di contabilità pubblica.

Secondo le Sezioni riunite della Corte dei conti – intervenute con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 17, comma 31 del Decreto Legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102 – il concetto di contabilità pubblica deve essere incentrato sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici” da intendersi in senso dinamico in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (Deliberazione del 17 novembre 2010, n. 54).

Con specifico riferimento alla richiesta analizzata dalla presente pronunzia, la richiesta di parere appare ammissibile in quanto concerne, da un lato, la materia dei rapporti finanziari con una propria partecipata, dall’altro riguarda la compatibilità dell’operazione con i vincoli finanziari all’indebitamento.

MERITO

1. Questa Sezione evidenzia, ancora una volta, come ogni decisione negoziale – nello specifico un’operazione di accollo di un debito a valle di una partecipazione in una società di capitali – deve passare da una previa fase pubblicistica (cfr., da ultimo, SRC Lombardia n. 355/2012/PAR).

La giurisprudenza contabile come quella amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, nell’Adunanza Plenaria n. 10 del 2011), infatti, ha da tempo evidenziato che gli atti pubblicistici vanno, sul piano logico, cronologico e giuridico, tenuti nettamente distinti dai successivi atti negoziali cui sono prodromici.

È appena il caso di ricordare che la preliminare decisione pubblicistica, dunque, deve riscontrare che il compimento del negozio persegua l’interesse della p.a., in modo imparziale ed efficiente, e non si ponga in contrasto con i limiti ordinamentali, i quali sono di duplice natura:

a) limiti di carattere “interno”, in quanto concernono lo scopo stesso dell’operazione e la sua compatibilità con la causa giuridica dell’operazione e, in genere, con la disciplina del “tipo” negoziale;

b) limiti di carattere “esterno”, in quanto afferiscono il piano dell’azione. Si tratta, in particolare, di norme che pongono vincoli di finanza pubblica, limitando la discrezionalità nella gestione della provvista dell’operazione, nonché di quelle norme che disciplinano la fase dell’esternazione della volontà negoziale della pubblica amministrazione, la cui fonte principale si ravvisa nel codice dei contratti pubblici (normativa che consente di contemperare gli interessi pubblici con quelli privatistici e secondari in gioco, realizzando in un tempo tutela della concorrenza e salvaguardia delle finanze, con la ricerca dell’offerta economicamente ottimale, cfr. C. cost. sentt. nn. 401/2007 e 232/2010).

Nell’atto amministrativo preliminare, infatti, si condensano le valutazioni sugli interessi pubblici (espressi dalla legge con l’indicazione degli scopi e dei limiti all’agire giuridico dell’amministrazione) che nel diritto comune, il più delle volte, rimangono estranei alla causa e privi di rilevanza giuridica, segnalandosi come meri “motivi”.

Con riferimento al caso prospettato, inoltre, si tratta di un negozio, quello di accollo, che si pone “a valle” di scelte a monte già effettuate, nello specifico, l’opzione per la partecipazione ad una società mista di diritto privato. Tali scelte – che costituiscono i “motivi” della stipulazione del negozio societario – pur rimanendo tendenzialmente irrilevanti nella fase privatistica, nella fase pubblicistica hanno una pregnanza costante, in quanto, da un lato, costituiscono la giustificazione amministrativa del negozio partecipativo, dall’altro, costituiscono il presupposto delle eventuali ulteriori attività negoziali collegate, come quelle che mirano a modificare l’atto costitutivo, a dismettere la società o la partecipazione, a rifinanziare la stessa, ovvero quelle che determinino una sostanziale modificazione della responsabilità dell’ente per i debiti sociali (ad esempio, l’assunzione di garanzie tipiche o atipiche).

La scelta della “società mista” come modello per il perseguimento di interessi pubblici costituisce quindi essa stessa un presupposto di fatto da cui deve muovere per l’esercizio dell’attività amministrativa discrezionale successiva.

Detto in altri termini, le scelte discrezionali effettuate costituiscono la “storicizzazione” dell’interesse pubblico; tale processo – similmente a quanto avviene in caso di esercizio di poteri di autotutela – pone l’atto compiuto all’interno dell’ordinamento come il riferimento, valido ed efficace, da cui muovere per le scelte successive. Per tale ragione, nel caso in cui gli ipotizzati atti successivi ne contraddicono in tutto o in parte i presupposti, è onere dell’ente specificamente motivare in base ad apposita istruttoria, che dimostri sia necessario “riqualificare” la valutazione “a monte”, dimostrando un interesse pubblico specifico al suo superamento, parziale o totale.

Appare pertanto necessario evidenziare le implicite scelte e motivazioni sottese alla partecipazione in una società mista di capitali, negozio che si pone a monte dell’odierna operazione di accollo e con la quale essa si pone in parziale contraddizione.

In quest’ottica è opportuno ricordare che, sul piano astratto, la scelta del modulo societario ha degli impliciti “moventi” che sono legati alla sua causa giuridica (“moventi” che sono rilevanti tanto nella fase costitutiva che funzionale del nuovo soggetto giuridico): in primo luogo, sotto il profilo dello scopo-economico pratico, la scelta del modulo implica che tramite tale organismo si sceglie se non di produrre utili, quantomeno, di svolgere l’attività in una condizione equilibrio economico-finanziario, tale da non arrecare danno economico ai soci (cfr. art. 2247 c.c.; cfr. SRC Lombardia n. 1052/2010/PRSE in tema di abuso dello strumento societario; nonché n. 281/2012/PRSE e n. 380/2012/PRSE).

In secondo luogo, è evidente che la scelta del modulo sottende la volontà di adottare uno statuto giuridico che garantisca una maggiore libertà tanto in termini di contabilità (minore attenzione ai profili finanziari, salvo l’adozione di documenti contabili ad hoc, come il rendiconto finanziario che bene si presta a dialogare con la contabilità degli enti locali) che di flessibilità gestionale (per esempio, sul piano della gestione del personale e, soprattutto, sul piano del reclutamento, dove la regola di evidenza pubblica per la selezione del personale è mediata dalla necessità di adozione di appositi provvedimenti interni da parte della società medesima, cfr. art. 18 commi 1 e 2 del D.L. n. 112/2008, conv. L. n. 133/2008).

In terzo luogo, nel caso in cui la scelta ricada su una società a partecipazione mista, in cui sono presenti capitali privati, è evidente che l’intento è quello di realizzare una forma di “collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori” (Cons. Stato, Sez. II, 18 aprile 2007, parere n. 456/2007) che consenta di reperire risorse in forma di capitale di rischio; tale modalità organizzativa può costituire un modo efficiente e flessibile di soddisfazione di esigenze generali solo «se ricondotta nei canoni del pieno rispetto dei principi comunitari – di particolare efficacia, almeno in certi casi (cfr., nello stesso senso, il Libro Verde della Commissione europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento europeo del 26 ottobre 2006)». Poiché il finanziamento dell’attività da parte di soggetti privati avviene a mezzo di capitale di rischio e non di debito, se da un lato ciò consente a tali soggetti di incidere direttamente sulle decisioni di gestione e sulla distribuzione di flussi di cassa, dall’altro ciò comporta l’onere di sostenere l’attività societaria, nelle forme tipiche del diritto comune, con il connesso rischio d’impresa.

A tal proposito ed in quarto luogo, si rammenta che la scelta della forma della società di capitali presenta per tutti i soci l’indubbio vantaggio di limitare tale rischio al capitale conferito (per le s.p.a., cfr. l’art. 2325 c.c.). Si tratta di uno di quei casi in cui l’ordinamento ammette una limitazione della responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.), limitazione che peraltro è accompagnata da adeguate cautele pubblicitarie (iscrizioni nel registro delle imprese) volte a rendere edotti i terzi che le obbligazioni contratte della società sono garantite esclusivamente dal patrimonio destinato all’attività sociale, come documentato dalla contabilità della stessa; il che implica per la comunità dei potenziali creditori l’onere di valutare con l’adeguata diligenza la solvibilità della società (c.d. rischio di credito), in base al principio di autoresponsabilità.

Non deve essere infatti trascurato che il modulo della società di capitali – a differenza degli organismi di diritto pubblico tramite cui l’ordinamento consente agli enti locali l’erogazione in forma autonoma di servizi (cfr. art. 114 T.U.E.L.) – non implica un analogo obbligo di copertura delle perdite: ove risultasse acclarato lo stato di decozione, la responsabilità per i debiti derivanti dall’esercizio dell’attività societaria è limitata al patrimonio conferito.

Allo stesso tempo, non può non essere evidenziato che, nonostante la limitazione della responsabilità patrimoniale (artt. 2740 e 2325 c.c.), l’ente locale è chiamato ad esercitare adeguatamente i propri poteri di controllo, pena il rischio dell’integrazione, in presenza dei presupposti di legge, della responsabilità per lesione dell’affidamento (legittimo) dei creditori, ove ad esso sia dato giuridica rilevanza (cfr. ad esempio l’art. 2497 c.c.).

2. Nel caso che qui viene astrattamente prospettato, dunque, deve effettuarsi l’ennesima valutazione di tipo bifasico, concernente, stavolta, l’assunzione di un debito della società tramite un’operazione di accollo.

Sull’inquadramento giuridico e sulle conseguenze contabili di operazioni di accollo di debiti si rinvia a quanto evidenziato da questa Sezione con il parere n. 352/2012/PAR e dalle Sezioni Riunite in sede di controllo, con la deliberazione n. 9 del 2010. Peraltro, in relazione al caso in esame, vanno evidenziate alcune specificità, collegate alla scelta, effettuata a monte, di partecipare ad una società mista di capitali, scelta che costituisce il dato primigenio da cui l’ente locale deve muovere per esercitare legittimamente la propria discrezionalità in ordine alla ridetta operazione di accollo, alla stregua di parametri di legalità finanziaria, nonché in termini di efficienza, efficacia ed economicità.

Detto in altri termini, avendo il Comune scelto di operare alla stregua di un socio di diritto comune, esso deve agire con la stessa razionalità economica, specie in considerazione del fatto che il rischio d’impresa è stato condiviso con dei privati, anche se soci di minoranza.

In giurisprudenza, infatti, è stato ritenuto che “la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché il Comune ne possegga in tutto o in parte, le azioni (Cass. civ., Sez. Un., n. 7799/2005; Cass. civ. Sez. Un., 17287/2006), giacché al Comune non è consentito incidere sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali diversi da quelli riconosciutigli dal codice civile, dal momento che il rapporto tra i due soggetti è di assoluta autonomia.

A conferma di ciò, il Legislatore, ad explicationem, nell’ambito della recente riforma delle società strumentali delle pubbliche amministrazione (art. 4 del D.L. n. 95/2012, conv. L. n. 135/2012) ha recentemente ribadito che: «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali» (comma 13).

In sostanza nei confronti delle società partecipate, il Comune dovrebbe comportarsi come un qualunque socio e procedere all’attribuzione di ulteriori capitali nelle forme previste dal codice civile, che valorizzano la condivisione del rischio d’impresa (aumenti di capitale o ricapitalizzazioni) con il proporzionale coinvolgimento dei soci privati, secondo le procedure di legge (delibera di aumento/ricapitalizzazione, offerta in opzione ai soci, sottoscrizione dei soci aderenti). Infatti, è indubitabile che tale condivisione costituisce un vantaggio per il Comune e quindi per la collettività; pertanto ogni altra opzione – che importasse l’accollo di un rischio, d’impresa o di credito, altrimenti spettante alla società e quindi, indirettamente in proporzione ai soci – dovrebbe mostrare un’adeguata razionalità economica (che il Comune deve valutare nella fase pubblicistica che precede l’esercizio della sua potestà negoziale): infatti, non v’è chi non veda come scelte in questo senso impegnerebbero ulteriori e non previste risorse economiche rispetto a quelle di cui il Comune si fa carico come socio nell’ottica della normale gestione societaria.

In questo senso si possono citare taluni interventi legislativi con cui il Conditor iuris ha chiaramente cercato di impedire che gli enti pubblici, operanti a mezzo di società di diritto privato, agiscano con una razionalità estranea al mercato: in questo senso va certamente l’art. 6 comma 19 del D.L. n. 78/2010 (conv. L. n. 122/2010), che ha limitato, la possibilità di soccorso finanziario a mezzo di finanziamenti tampone nei confronti di società che presentano una condizione di inefficienza strutturale, salvo quanto previsto dall’art. 2447 codice civile (riduzione del capitale al di sotto del limite legale). Secondo tale disposto normativo, gli enti locali non possono effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali.

Questa Sezione ha più volte evidenziato come tale dettato normativo esprima un principio generale di trasparenza e razionalità economica nei rapporti fra ente locale e società partecipata. Il Legislatore ha in sostanza limitato in modo drastico la possibilità per gli enti locali di sostenere finanziariamente gli organismi partecipati, positivizzando pratiche economiche che avrebbero dovuto orientare la discrezionalità dell’ente e costituire la base di ogni scelta volta alla sana gestione finanziaria degli organismi societari, stante l’uso di risorse della collettività (cfr. SRC Lombardia n. 753/2010/PRSE).

Tanto premesso, appare chiaro che l’accollo di un debito della società da parte del Comune, apparirebbe come una forma surrettizia di soccorso finanziario per il quale è necessario rispettare, in primo luogo, i ridetti limiti di legge (art. 6, comma 19, D.L. n. 78/2010).

Inoltre, anche in presenza delle condizioni per procedere a tale soccorso finanziario – tenuto conto che l’operazione in oggetto impedirebbe al Comune di avvalersi pienamente del “vantaggio” della responsabilità patrimoniale limitata e condivisa con i soci privati – l’accollo deve corrispondere ad uno specifico e concreto pubblico interesse, la cui esistenza va motivata alla luce degli scopi istituzionali e della necessità di perseguire i canoni di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa (art. 97 Costituzione, artt. 1 e 3 della Legge n. 241/1990), soprattutto, in termini di razionalità economica.

Detto in altri termini, a prescindere dalla ricorrenza della fattispecie dell’art. 6, comma 19, del D.L. 78/2010, il Comune dovrà dimostrare, in sede di istruttoria e motivazione, la sussistenza di una razionalità economica efficiente che giustifichi l’accantonamento del vantaggio della limitazione della responsabilità patrimoniale (cfr. cfr. SRC Lombardia n. 380/2012/PRSE) e della proporzionale ripartizione dello stesso con i soci privati (cfr. SRC Lombardia delibere nn. 270, 271 e 324/2012). La discrezionalità amministrativa, infatti, impone che ogni decisione venga assunta evidenziando la rispondenza della stessa agli scopi dell’amministrazione nonché a ragioni di efficienza, efficacia ed economicità, rispetto a decisioni alternative, come per esempio l’aumento di capitale o la ricapitalizzazione proporzionale da parte di tutti i soci ovvero la decisione di liquidazione. In altre parole, mentre per i soggetti privati tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito, per i soggetti pubblici la capacità di compiere atti negoziali costituisce comunque attività amministrativa, seppur di diritto privato e, pertanto, può essere legittimamente esercitata ed utilizzata nei limiti e in funzione delle attribuzioni che la legge riconosce all’ente, tanto più ove ciò impegni la finanza pubblica.

Se, stando allo stato degli atti, non c’è impegno giuridico diretto del Comune in ordine al debito contratto dalla società Progetto Lissone S.p.a., si deve ritenere che non appare di per sé sufficiente ad argomentare l’esistenza di un simile interesse la constatazione che l’operazione di ristrutturazione si è risolta a tutto vantaggio del Comune che ne ha beneficiato quale proprietario: si tratta, infatti, di un debito sorto a seguito di un accordo tra Comune e Società, stipulato in forma di diritto privato, il quale corrisponde ad un assetto d’interessi di cui i contraenti hanno mostrato consapevolezza e volontà a suo tempo, dando origine ad una convenzione che, una volta stipulata, tra le parti “ha forza di legge” (art. 1372 c.c.). Ciò che viene lamentato, infatti, non è uno squilibrio contrattuale a causa di sopravvenienze, ma uno squilibrio originario di cui le parti si sono fatte carico in forza del principio di autoresponsabilità, accompagnato dalla constatazione del fallimento della società di gestire la propria attività in modo efficiente.

L’accollo, in definitiva, si tradurrebbe in un indiretto beneficio per i soci privati, così sollevati dalle conseguenze del rischio d’impresa da loro proporzionalmente assunto. Né, in proposito può invocarsi il richiamato favor per l’estinzione del debito degli enti locali, di cui all’art. 16, comma 6-bis, D.L. n. 95/2012 (come introdotto dall’art. 8, comma 3, D.L. 174/2012), in quanto tale norma riguarda debiti originariamente dell’ente locale e non quelli assunti da soggetti partecipati.

3. In proposito si rammenta, altresì, che le Sezioni riunite, con la deliberazione n. 9/2010, se da un lato hanno stabilito che gli art. 222 e ss. T.U.E.L. non escludono forme atipiche di indebitamento (tra cui, appunto, l’accollo), allo stesso tempo hanno ribadito, in accordo con quanto sostenuto da questa Sezione, che la stipulabilità di contratti di accollo (segnatamente di accollo interno) è subordinata alla verifica: a) della convenienza economica dell’operazione e b) della compatibilità con la disciplina del Patto di Stabilità.

Come è noto, infatti, il Patto di stabilità obbliga gli enti locali a raggiungere annualmente un “saldo-obbiettivo”, calcolato in termini di competenza per quanto concerne la spesa corrente, in termini di cassa per quanto riguarda la spesa per investimenti (c.d. saldo a competenza mista).

La ridetta decisione delle Sezioni riunite ha evidenziato il potenziale elusivo del Patto di operazioni siffatte, per la loro capacità di differire il pagamento di un debito contratto nell’interesse dell’accollante, rispetto al momento in cui il debito stesso viene a maturazione, alterando la consistenza di cassa. Il debito, infatti, viene fatto gravare su un ente interposto, il quale contrae il debito e poi lo ritrasferisce, con un’operazione di accollo, sull’ente nell’interesse del quale lo stesso debito è stato contratto.

Nel caso di specie, il potenziale elusivo risulta amplificato dalla circostanza che tanto il debito originario, quanto l’accollo, vengono contratti da e con un organismo partecipato di cui il Comune dispone del controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c..

In definitiva, se da un lato è innegabile che l’accollo produce un riallineamento tra soggetto nel cui interesse il debito è stato contratto e quello che deve sostenerne gli oneri per interessi e capitali, dall’altro – alla prova dei fatti – tale operazione giuridica potrebbe costituire uno strumento per raggiungere fittiziamente il “saldo-obiettivo”, procrastinando l’evidenza per cassa di un investimento in esercizi successivi, in modo, magari, opportunamente frazionato.

4. In estrema sintesi, l’ente deve far precedere la decisione di procedere alla sopra descritta operazione di accollo da un’apposita decisione amministrativa; in tale sede il Comune deve verificare la compatibilità di tale negozio con i suddetti limiti in termini di legalità finanziaria (limiti al finanziamento degli organismi partecipati, rispetto sostanziale del Patto di Stabilità; razionalità economica di un’operazione che accantona, parzialmente, la responsabilità limitata per debiti e la condivisione del rischio d’impresa) ed essere sorretta da una motivazione in grado di evidenziare un interesse pubblico e specifico all’operazione, il quale, principalmente, va verificato in termini di razionalità economica.

Tutte le sopraesposte considerazioni appaiono tanto più pregnanti ove si constati, dal questionario reso dal Collegio dei revisori in ordine al rendiconto 2010, la presenza di un contributo alla Società per € 70.000,00 allocato al titolo II «relativo ad un contributo in conto capitale concesso a fronte di interventi comportanti incrementi patrimoniali su immobili di proprietà dell’Amministrazione comunale, attualmente in comodato gratuito alla predetta società», evidenziando che il Comune ha già sostenuto, parzialmente, il costo dell’operazione di ristrutturazione..

5. Tanto premesso quanto agli stringenti limiti che si impongono alla discrezionalità dell’ente nell’effettuazione di una simile operazione, ove comunque l’Amministrazione ritenesse, sotto la propria responsabilità, di procedere con l’accollo del debito della Società “Progetto Lissone”, per quanto concerne il quesito relativo alla possibilità di procedere ad estinzione anticipata del mutuo con l’avanzo non vincolato, non possono che richiamarsi i consolidati approdi di cui alla giurisprudenza di questa Sezione (cfr. da ultimo SRC Lombardia n. 487/2012/PAR, cui si fa rinvio).

Per espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, T.U.E.L.) l’avanzo di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente derivante dall’estinzione anticipata dei mutui. Tale possibilità era stata evidenziata in via giurisprudenziale da questa Sezione (delibere nn. 36 e 40/2007/PAR) già prima delle novelle di cui agli art. 11 del D.L. n.159/2007, conv. L. n. 222/2007 e, di presso, dall’art. 2, comma 13, della L. n. 244/2007, che ha modificato in parte qua l’art. 187 comma 2 del T.U.E.L., prevedendo la prefata possibilità di utilizzazione.

La Sezione, inoltre, partendo dalla considerazione che la penale per l’estinzione anticipata è il corrispettivo contrattualmente fissato per il recesso, sul versante della spesa ha ritenuto di fare le seguenti valutazioni: poiché la penale può essere virtualmente considerata un’operazione di attualizzazione di una spesa corrente riflessa su esercizi futuri, ferma restando l’utilizzabilità dell’avanzo come unitaria fonte di finanziamento dell’estinzione (cfr. delibera 546/2010/PAR nonché 317/2011/PAR e infine 288/2012/PAR), si è ritenuto che la sede appropriata per l’allocazione della correlativa spesa fosse il Titolo I, mentre per la parte in conto capitale il Titolo III (Spese per rimborso di prestiti).

Peraltro, l’utilizzabilità unitaria dell’avanzo a fini di finanziamento dell’estinzione anticipata, per la stesse considerazioni preliminari, trova un limite in quella parte dell’avanzo che è vincolata a finalità specifiche. Infatti, il corrispettivo per la penale potrà essere finanziato solo con la parte non vincolata per la spesa in conto capitale o di altro genere.

P.Q.M.

nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione.

L’estensore Il Presidente

(Dott. Francesco Sucameli) (Dott. Nicola Mastropasqua)

Depositata in Segreteria il

27 dicembre 2012

Il Direttore della Segreteria

(Dott.ssa Daniela Parisini)