Sui criteri di calcolo delle indennità espropriative

NOTA

Con la deliberazione in rassegna, la Sezione controllo Friuli Venezia Giulia assume posizione sulle questioni interpretative lasciate aperte dalla declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte costituzionale (sentenza 10 giugno 2011 n. 181), in tema di criteri di determinazione dell’indennità di esproprio.

Con tale pronuncia la Consulta ha, come noto,:

– dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dallalegge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gliarticoli 15, primo comma, secondo periodo, e16, commi quinto e sesto,dellalegge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alleleggi 17 agosto 1942, n. 1150;18 aprile 1962, n. 167;29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli);

dichiarato, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).

Il Sindaco del Comune di Gorizia chiedeva di conoscere quali effetti abbia avuto la sentenza in questione sulle norme in materia di indennità aggiuntive (art. 40, comma 4 e art. 42 del D.P.R. 327/2001) e su quelle relative all’indennità prevista per la cd. cessione bonaria (art. 45, comma 2, lett c e d del D.P.R. 327/2001) e, in particolare, chiedeva di sapere come debbano interpretarsi le predette disposizioni, alla luce della declaratoria di incostituzionalità dei co. 2 e 3 dell’art. 40, D.P.R. 327/2001, che “disponevano la commisurazione al valore agricolo medio (V.A.M.) corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona per la determinazione dell’indennità di esproprio di terreni agricoli non effettivamente coltivati (comma 2) e l’applicazione del valore agricolo medio (V.A.M.) corrispondente al tipo di coltura praticata, per la determinazione e l’offerta dell’indennità provvisoria di esproprio di terreni agricoli o comunque non edificabili”.

La Sezione, all’esito di un’ampia e attenta disamina del dato normativo e giurisprudenziale, perviene, in estrema sintesi, alle seguenti conlcusioni:

– il perdurante riferimento al valore agricolo medio (V.A.M.), assunto dagli artt. 40, co. 4 e 42 D.P.R. n. 327/2001 quale criterio di calcolo delle indennità aggiuntive, deve considerarsi tuttora valido per la determinazione delle predette indennità;

– la determinazione del corrispettivo per la cessione volontaria deve avvenire, nell’impossibilità di fare riferimento a norme non più applicabili (art. 40, comma 3) e in assenza, allo stato, di un intervento legislativo successivo alla sentenza 181/2011, con le medesime modalità ora possibili per il calcolo dell’indennità di espropriazione, ovverosia, sulla base del valore venale nel caso di aree non edificabili non coltivate (cfr. art. 39 L. n. 2359 del 1865) e in base al valore agricolo effettivo per le aree non edificabili e coltivate (cfr. art. 40, comma 1, D.P.R. 327/2001), mentre non potranno essere applicate le maggiorazioni previste dall’articolo 45, comma 2, lett. c e d.

* * *

Deliberazione n. FVG/ 29 /2012/PAR

REPUBBLICA ITALIANA

la

CORTE DEI CONTI

Sezione di controllo della regione Friuli Venezia Giulia

V Collegio

composto dai seguenti magistrati:

PRESIDENTE: dott. Antonio De Salvo

CONSIGLIERE: dott. Giovanni Bellarosa

REFERENDARIO: dott.ssa Innocenza Zaffina (relatore)

Deliberazione del 21 marzo 2012
concernente gli effetti della Sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2011 n. 181

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Visto l’articolo 100, comma 2, della Costituzione;

vista la legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, e successive modifiche e integrazioni (Statuto speciale della Regione Friuli Venezia Giulia);

vista la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione;

visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con R.D. 12 luglio 1934, n. 1214 e successive modifiche e integrazioni;

vista la legge 14 gennaio 1994, n. 20, recante disposizioni in materia di giurisdizione e di controllo della Corte dei conti e successive modifiche e integrazioni;

visto l’art. 33, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 1975, n. 902, così come modificato dall’art. 3 del decreto legislativo 15 maggio 2003, n. 125, secondo cui la Sezione di controllo della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia, a richiesta dell’amministrazione controllata, può rendere motivati avvisi sulle materie di contabilità pubblica;

visto l’art. 17, comma 31, del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito nella Legge 3 agosto 2009, n, 102;

visto l’art. 12 del Regolamento per l’organizzazione ed il funzionamento della Sezione, adottato con deliberazione n. 232/Sez.Pl./2011 ai sensi dell’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 1975 n. 902, sostituito dall’art. 7 del D. Lgs. 125/2003;

vista la deliberazione n. 9 del 4 giugno 2009 della Sezione delle Autonomie recante “Modifiche ed integrazione degli indirizzi e criteri generali per l’esercizio dell’attività consultiva da parte delle Sezioni regionali di controllo”;

vista la deliberazione n. 4/Sez.Pl./2004, come modificata dalla deliberazione 19/Sez.Pl./2004, e successivamente aggiornata dalla deliberazione 27/Sez.Pl./2007 che stabilisce le modalità, i limiti ed i requisiti di ammissibilità dell’attività consultiva della Sezione;

vista la deliberazione dell’adunanza plenaria di questa Sezione n. 236/2011 del 14 dicembre 2011, che approva il programma delle attività di controllo per l’anno 2012;

vista l’ordinanza presidenziale n. 3 del 16 gennaio 2012 relativa alle competenze ed alla composizione dei Collegi della Sezione;

VISTA la richiesta di motivato avviso avanzata dal Sindaco del Comune di Gorizia con nota prot. 10.03.05/32 dell’8/02/2012, acquisita in data 27 febbraio 2012 al n. 838 del protocollo della Sezione, avente ad oggetto gli effetti della Sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2011 n. 181;

VISTA l’ordinanza presidenziale n. 14 del 14 marzo 2012 con la quale, ai sensi dell’art. 12 del Regolamento per l’organizzazione e il funzionamento della Sezione, delibata l’ammissibilità della richiesta di motivato avviso, la questione è stata deferita all’attuale V Collegio ed è stato individuata la d.ssa Innocenza Zaffina quale magistrato incaricato della relativa istruttoria;

VISTA la medesima ordinanza n. 14/2012 con la quale è stato convocato il V Collegio per il giorno 21 marzo 2012 alle ore 11.00 presso la sede della Sezione per la discussione dei temi relativi all’emanando motivato avviso;

UDITO nella Camera di consiglio del 21 marzo 2012 il relatore d.ssa Innocenza Zaffina

Premesso

Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Gorizia ha rivolto alla Sezione una richiesta di motivato avviso volta a conoscere quali effetti abbia avuto la sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2011 n. 181 sulle norme in materia di indennità aggiuntive (art. 40, comma 4 e art. 42 del D.P.R. 327/2001) e su quelle relative all’indennità prevista per la cd. cessione bonaria (art. 45, comma 2, lett c e d del D.P.R. 327/2001).

In particolare, il Sindaco chiede come debbano interpretarsi le predette disposizioni, alla luce della declaratoria di incostituzionalità dei commi 2 e 3 dell’art. 40, del D.P.R. 327/2001, che “disponevano la commisurazione al valore agricolo medio (V.A.M.) corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona per la determinazione dell’indennità di esproprio di terreni agricoli non effettivamente coltivati (comma 2) e l’applicazione del valore agricolo medio (V.A.M.) corrispondente al tipo di coltura praticata, per la determinazione e l’offerta dell’indennità provvisoria di esproprio di terreni agricoli o comunque non edificabili”.

Ad avviso dell’ente istante, “il venir meno del ricorso al valore agricolo medio” farebbe “sorgere rilevanti interrogativi sull’applicabilità di quelle altre norme contenute nel Testo unico sulle espropriazioni che fanno riferimento a tale valore”.

***

Sui requisiti di ammissibilità soggettiva ed oggettiva della richiesta di motivato avviso.

È opportuno precisare che le richieste di motivato avviso rivolte a questa Sezione regionale di controllo trovano il loro fondamento nell’art. 33, comma 4, del d.P.R. 25 novembre 1975, n. 902, così come modificato dall’art. 3 d. lgs. 15 maggio 2003, n. 125, secondo cui la Sezione, a richiesta dell’amministrazione controllata, può rendere motivati avvisi sulle materie di contabilità pubblica.

Preliminarmente all’esame del merito, le Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti, verificano l’ammissibilità delle richieste di motivato avviso sia sotto il profilo soggettivo (legittimazione dell’organo richiedente), sia sotto quello oggettivo (attinenza del quesito alla materia della contabilità pubblica).

Ai fini della sussistenza dei requisiti di ammissibilità soggettiva si osserva che questa Sezione in composizione plenaria, nella delibera n. 18/Sez. Pl. del 12 ottobre 2004, ha precisato che l’ambito soggettivo dell’attività consultiva espletabile dalla Sezione del Friuli Venezia Giulia è determinato dall’articolo 3, comma 1, del d.lgs. 15 maggio 2003, n. 125 che individua le amministrazioni nei confronti delle quali la Sezione medesima esplica le attività di controllo sulla gestione. Tali amministrazioni, per espressa disposizione legislativa, sono costituite dalla regione e dai suoi enti strumentali, dagli enti locali territoriali e loro enti strumentali, dalle altre istituzioni pubbliche di autonomia aventi sede nella regione.

Sempre in relazione al profilo dell’ammissibilità soggettiva, si osserva che il soggetto legittimato a rivolgere alla Sezione una richiesta di motivato avviso deve essere individuato nell’organo di vertice dell’ente che, per il Comune, è il Sindaco; la richiesta di parere in esame è, sotto tale profilo ammissibile, in quanto da costui sottoscritta.

Quanto all’ammissibilità oggettiva, si osserva che l’art. 33, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 1975, n. 902, circoscrive i pareri che questa Sezione regionale di controllo può esprimere alle materie della contabilità pubblica.

La Sezione regionale per il Friuli Venezia Giulia, nella delibera n. 27/Sez. Pl. del 5 ottobre 2007, che è nuovamente intervenuta sulla materia già oggetto delle precedenti deliberazioni nn. 18/Sez.Pl./2004 e 19/Sez. Pl./2004, fissando i requisiti di ammissibilità delle richieste di motivato avviso, ha precisato che “le materie di contabilità pubblica sulle quali può esplicarsi l’attività consultiva della Sezione sono quelle tematiche in relazione alle quali essa ritiene di poter utilmente svolgere quella funzione di affermazione di principi attinenti la regolarità contabile e la corretta e sana gestione finanziaria che costituiscono l’essenza del suo ordinario controllo”.

Nella citata delibera sono stati indicati gli ulteriori requisiti di ammissibilità oggettiva delle richieste di motivato avviso costituiti dall’inerenza della richiesta a questioni:

– non astratte e di carattere e/o di interesse generale;

– relative a scelte amministrative future e non ancora operate;

– per le quali non è pendente un procedimento presso la Procura regionale della Corte dei Conti;

– per le quali non è pendente un giudizio avanti ad organi giurisdizionali di qualsiasi ordine;

– per le quali non è pendente una richiesta di parere ad altre autorità od organismi pubblici;

– di cui sia stata data notizia all’organo di revisione economica e finanziaria o se esistente, agli uffici di controllo interno.

Nel quadro ordinamentale come sopra delineato è intervenuto il legislatore ordinario con le norme di cui all’art. 17, comma 31, del D.L. n. 78 del 2009, convertito nella legge 3 agosto 2009, n. 102, che hanno assegnato alle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti un potere di indirizzo interpretativo nei confronti delle Sezioni regionali di controllo competenti a rendere pareri in materia di contabilità pubblica, e ciò con la finalità di garantire la coerenza dell’unitaria attività svolta dalla Corte dei conti per le funzioni che ad essa spettano in materia di coordinamento della finanza pubblica, anche in relazione al federalismo fiscale. Tutte le sezioni regionali di controllo sono tenute a conformarsi alle pronunce di orientamento generale adottate dalle Sezioni riunite.

In seguito dell’attivazione della sopra richiamata competenza le Sezioni riunite, in presenza di un contrasto interpretativo tra le Sezioni regionali, sono intervenute con la delibera n. 54/CONTR/10 del 17 novembre 2010 a tracciare le linee fondamentali della nozione di contabilità pubblica strumentale all’esercizio della funzione consultiva.

Tanto premesso, la Sezione rileva che con riferimento all’interpretazione delle norme del D.P.R. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) e degli effetti che su di esse ha avuto la sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 2011 n. 181, il quesito presenta i requisiti di ammissibilità oggettiva, in quanto può ravvisarsi la sua riconducibilità alla gestione del patrimonio pubblico (cfr. deliberazione n. 54/CONTR/10 e n. 22/CONTR/11 delle Sezioni Riunite in sede di controllo) nonché alle modalità di gestione delle risorse finanziarie pubbliche, venendo in rilievo problematiche interpretative relative all’esercizio del potere ablatorio da parte della Pubblica amministrazione con effetti sia sul piano patrimoniale (con l’acquisizione di determinati beni al patrimonio dell’espropriante per motivi di interesse generale) sia sul piano finanziario (con il sorgere degli oneri derivanti dal procedimento espropriativo).

Sempre in relazione al profilo di ammissibilità oggettiva, si osserva che la richiesta non interferisce, allo stato degli atti, con funzioni di controllo o giurisdizionali svolte dalla magistratura contabile e neppure con un giudizio civile o amministrativo pendente.

Sussiste, infine il requisito della “non pendenza di richiesta di analogo parere rivolta ad altra autorità o organismo pubblico”.

Nei limiti sopra precisati, la richiesta di parere è pertanto ammissibile e può essere esaminata

Nel Merito

Con la sentenza 10 giugno 2011 n. 181, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 5 bis, comma 4, introdotto nel Decreto Legge 333/1992 dalla Legge di Conversione 359/1992 in combinato disposto con gli artt. 15, comma 1, secondo periodo, e 16, commi 5 e 6, l. 22 ottobre 1971, n. 865 (come sostituiti dall’art. 14 l. 28 gennaio 1977 n. 10), nonché, conseguentemente, dell’articolo 40, commi 2 e 3, del D.P.R. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).

La normativa di cui all’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 per la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa alle aree agricole e a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria, rinviava alle norme di cui all’art. 16, commi 5 e 6, di cui alla legge n. 865/ 1971.

La norme sopra richiamate stabilivano che l’indennità di espropriazione, per le aree esterne ai centri edificati di cui all’art. 18, era commisurata al valore agricolo medio annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali, valore corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare (art. 16, comma 5); ed aggiungevano che, nelle aree comprese nei centri edificati, l’indennità era commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricadeva l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa (art. 16, comma 6).

Secondo la Consulta, “il valore tabellare così calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo, ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n. 348 del 2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto)”.

E’ vero”, prosegue la Corte costituzionale, “che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale (…) Tuttavia, proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui”.

Sulla base delle sopra richiamate considerazioni la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa censurata, perché in contrasto con l’art. 42, terzo comma, Cost e con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo.

Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), è stata inoltre dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001. Tale norma adottava per la determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile, “con riguardo ai commi indicati, il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi” conteneva “una disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione”.

A seguito della suddetta declaratoria di incostituzionalità, l’unico criterio utilizzabile per la determinazione della indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile e non coltivata è ora quello del valore venale pieno di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 39 (Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza 29 settembre 2011, n. 19936). Si tratta, infatti, dell “unico criterio ancora vigente rinvenibile nell’ordinamento, e per di più non stabilito per singole e specifiche fattispecie espropriative, ma destinato a funzionare in linea generale in ogni ipotesi o tipo di espropriazione salvo che un’apposita norma provvedesse diversamente. E che quindi (…) si presenta idoneo a riespandere la sua efficacia per colmare il vuoto prodotto nell’ordinamento dall’espunzione del criterio dichiarato incostituzionale (Cass., n. 4602/1989; 3785/1988; sez.un. 64/1986): anche per la sua corrispondenza con la riparazione integrale in rapporto ragionevole con il valore venale del bene garantita dall’art. 1 del Protocollo allegato alla Convenzione europea,nell’interpretazione offerta dalla Corte EDU” (cit. Cass., Sez. I civ., sent. 29 settembre 2011, n. 19936).

La Corte costituzionale non ha invece ritenuto di estendere la declaratoria di incostituzionalità anche al comma 1 del citato art. 40 che, con riferimento all’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata, stabilisce che “l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola”.

Per tali aree deve quindi aversi riguardo non già al valore medio agricolo ma al valore agricolo effettivo, che tenga conto delle colture nonché dei manufatti edilizi effettivamente presenti sul terreno e dell’eventuale esercizio di un’azienda agricola. Secondo la Consulta, “la mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari”. Pertanto, anche per tali terreni (non edificabili e coltivati) viene superato il criterio del “valore agricolo tabellare” e affermato quello del “valore di mercato del terreno utilizzato nell’azienda agricola, senza il limite posto dalle tabelle redatte annualmente dall’apposita commissione” (cfr. Cass. 25 febbraio 2011, n. 4699).

Nel quadro sopra delineato si inserisce il quesito posto dal Comune di Gorizia che si interroga sulla perdurante vigenza delle norme, pure contenute nel D.P.R. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), che fanno riferimento al valore agricolo medio (V.A.M).

Ci si riferisce innanzitutto all’articolo 40, comma 4, secondo cui “al proprietario coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale spetta un’indennità aggiuntiva, determinata in misura pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata”.

Inoltre, ai sensi dell’art. 42 “spetta una indennità aggiuntiva al fittavolo, al mezzadro o al compartecipante che, per effetto della procedura espropriativa o della cessione volontaria, sia costretto ad abbandonare in tutto o in parte l’area direttamente coltivata da almeno un anno prima della data in cui vi e’ stata la dichiarazione di pubblica utilità. L’indennità aggiuntiva è determinata ai sensi dell’articolo 40, comma 4, ed è corrisposta a seguito di una dichiarazione dell’interessato e di un riscontro della effettiva sussistenza dei relativi presupposti”.

Le indennità aggiuntive sono volte a risarcire un interesse che si differenzia da quello del proprietario, pur potendosi affiancare a quello dovuto a titolo di indennità di espropriazione. Nel primo caso (art. 40, comma 4), l’indennità aggiuntiva è dovuta al proprietario che sia anche coltivatore diretto e imprenditore agricolo a titolo principale.

Nel secondo caso (art. 42), invece, viene riconosciuta un’indennità a soggetti che, pur non essendo proprietari, sono titolari di qualificate situazioni giuridiche soggettive, considerate meritevoli di tutela dall’ordinamento giuridico italiano.

In altri termini, nelle fattispecie previste dalle norme appena richiamate, il potere ablatorio della PA non incide unicamente sul diritto di proprietà, ma coinvolge anche altri interessi “lato sensu” economici che trovano parimenti tutela nell’ordinamento giuridico. La particolare natura dei beni espropriandi (aree non edificabili e coltivate), nonché le peculiari condizioni soggettive dei potenziali beneficiari delle indennità sono pertanto i presupposti alla cui sussistenza è condizionato il diritto alle indennità aggiuntive.

Il perdurante riferimento al valore agricolo medio per la determinazione di tali indennità pone all’attenzione del Collegio la questione circa gli effetti della sentenza della Corte costituzionale sulle norme non direttamente coinvolte dalla declaratoria di illegittimità, nonché sui limiti imposti agli interpreti, qualora si presenti un contrasto con le norme pattizie della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

Tali questioni sono state affrontate dalla medesima Corte costituzionale nella sentenza n. 348 del 2007 che pure riguardava altre norme del D.P.R. 327/2001: secondo la Consulta, la Convenzione EDU “non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti”. Si escludono, pertanto, le norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza costituzionale.

In particolare, il giudice non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.

I limiti imposti al giudice ordinario precludono “a fortiori” alle pubbliche amministrazioni la disapplicazione di norme non ancora interessate da una dichiarazione di incostituzionalità. Piuttosto, sempre in coerenza con i principi affermati dalla Consulta, occorre verificare se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra le norme in materia di indennità aggiuntive e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost (cfr. cit. sentenza n. 348 del 2007).

Per tale operazione ermeneutica non può che essere d’ausilio la medesima sentenza 10 giugno 2011 n. 181, nella quale il valore agricolo medio viene così definito: “il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n. 348 del 2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto)”.

A ciò si aggiunga l’interpretazione che la Consulta dà del comma 1 del citato art. 40, non coinvolto nella declaratoria di incostituzionalità, in quanto suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata.

Nella medesima sentenza, nulla si dice a proposito delle disposizioni di cui all’art. 42 e di cui al comma 4 dell’art. 40, D.P.R. 327/2001: in coerenza con i principi affermati dalla Corte costituzionale, deve pertanto essere tentata anche per queste norme la strada di una interpretazione costituzionalmente orientata.

A tal fine, occorre richiamare le norme pattizie che la Consulta, mediante l’interposizione dell’art. 117, primo comma, Cost, ha ritenuto incompatibili con le norme oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale. Ci si riferisce all’articolo 1, del Protocollo 1 della CEDU, rubricato “ Protezione della proprietà”: “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Come è evidente, la norma pattizia è volta a tutelare il diritto di proprietà, mentre non prende in considerazione altri interessi, pur ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento giuridico italiano, quali quelli del coltivatore diretto, dell’imprenditore agricolo, del fittavolo, del mezzadro e del compartecipante, che attengono, come in precedenza è stato evidenziato, alla sfera di interessi economici, di cui possono essere titolari soggetti diversi dal proprietario.

Le indennità aggiuntive trovano infatti il proprio fondamento nell’attività di prestazione d’opera sul terreno espropriato e sono dirette a risarcire una posizione “autonoma” rispetto a quella del proprietario, “pur trovando sempre titolo nel provvedimento ablatorio” (cfr. Cass. Civ. sez. I, 10 settembre 2004, n. 18237). La medesima autonomia, rispetto alle norme oggetto di declaratoria di incostituzionalità, deve essere riconosciuta alle norme che a tali indennità aggiuntive si riferiscono. In particolare, anche tenuto conto delle disposizioni relative alle questioni di legittimità costituzionale (cfr. art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87) e in assenza di uno specifico provvedimento legislativo in materia, non si può ritenere che le norme ora all’esame siano state coinvolte nella declaratoria di incostituzionalità. Di conseguenza, il perdurante riferimento al V.A.M., assunto quale criterio di calcolo delle indennità aggiuntive, deve considerarsi tuttora valido per la determinazione delle predette indennità.

Passiamo ora ad esaminare gli effetti della sentenza del 10 giugno 2011 n. 181 sull’’articolo 45 del D.P.R., 327/2001 che prevede: “fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell’espropriazione l’atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà. Il corrispettivo dell’ atto di cessione: a) se riguarda un’area edificabile, è calcolato ai sensi dell’articolo 37, con l’aumento del dieci per cento di cui al comma 2 dell’articolo 37; b) se riguarda una costruzione legittimamente edificata, è calcolato nella misura venale del bene ai sensi dell’articolo 38 ; c) se riguarda un’area non edificabile, è calcolato aumentando del cinquanta per cento l’importo dovuto ai sensi dell’articolo 40, comma 3 ;d) se riguarda un’area non edificabile, coltivata direttamente dal proprietario, è calcolato moltiplicando per tre l’importo dovuto ai sensi dell’articolo 40, comma 3. In tale caso non compete l’indennità aggiuntiva di cui all’articolo 40, comma 4.. L’accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l’acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del capo X”.

La cessione volontaria del bene espropriando rientra nell’ambito dei contratti ad oggetto pubblico (o negozi di diritto pubblico) e può costituire, in alternativa al provvedimento amministrativo, l’atto finale di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità. Presupposto necessario della cessione volontaria è la conclusione di un accordo tra l’espropriante e l’espropriato che ha ad oggetto, tra l’altro, l’ammontare del corrispettivo.

Prima della declaratoria di incostituzionalità del comma 3 dell’art. 40, la cessione volontaria era particolarmente vantaggiosa per il proprietario del bene espropriando, il quale poteva accettare per le aree non edificabili un corrispettivo che, pur basandosi sul valore agricolo medio (cfr. art. 45, comma 2, lettere c) e d) ), era necessariamente di entità maggiore dell’indennità di espropriazione; tale corrispettivo, se l’area era coltivata direttamente dal proprietario, veniva calcolato moltiplicando per tre il valore agricolo medio di cui all’articolo 40, comma 3, corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare,ovvero aumentando il medesimo valore del cinquanta per cento (in caso di area non coltivata).

Pertanto, anche il corrispettivo della cessione era determinato con prestabiliti criteri legali medianti i quali il legislatore aveva ritenuto di contemperare l’interesse dell’autorità espropriante a una più celere definizione del procedimento espropriativo con quello del proprietario espropriato che otteneva un incentivo, anche di natura economica, per la conclusione di un accordo.

Essendo venuto meno il criterio legale assunto come parametro per la determinazione dell’indennità di espropriazione (il V.A.M.) e, conseguentemente (tramite il rinvio al comma 3 dell’articolo 40), la base di calcolo per la determinazione del corrispettivo, rimane da verificare se è ancora possibile dare delle norme in esame (art. 45, comma 2, lett. c) e d) ) una lettura costituzionalmente orientata, permanendo l’eventuale interesse dell’espropriante e dello stesso soggetto espropriato a una più celere definizione del procedimento espropriativo.

In proposito, il Collegio ritiene che non si possa continuare ad applicare le maggiorazioni previste dalle norme, sostituendo “sic et simpliciter” il parametro assunto dal legislatore come base di calcolo (il valore agricolo medio) con i criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione scaturenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale. Ciò in quanto le maggiorazioni di cui alle lett. c e d erano state previste per neutralizzare almeno in parte, in un’ottica incentivante, i criteri riduttivi di un valore estimativo (il V.A.M.) che non è più utilizzabile per il calcolo del corrispettivo, in seguito alla declaratoria di illegittimità del comma 3, dell’art. 40.

Inoltre, l’esame delle norme che, sempre in materia di corrispettivo per la cessione volontaria, si riferiscono ad altre tipologie di beni espropriati (lett. a) “area edificabile” e lett. b) “costruzione legittimamente edificata”) e che assumono come criterio di riferimento quello del valore venale del bene induce il Collegio a ritenere che solo un intervento legislativo potrebbe portare alla previsione di una maggiorazione per il calcolo del corrispettivo, come è avvenuto, ad esempio, nel caso delle aree edificabili.

Si ritengono pertanto applicabili anche al corrispettivo della cessione volontaria i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’indennità per l’esproprio che, “essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, è unica e non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato della L. n. 2359 del 1865, ex art. 39), e nelle singole fattispecie, neppure quello derivante dal criterio di valutazione posto dalla legge applicabile per determinarlo” (cfr. Cass. civ. Sez. I, Sent., 23-01-2012, n. 893). Pertanto, anche il corrispettivo della cessione volontaria non potrà che essere rapportato al valore venale dell’immobile espropriato, sì da raggiungere “la sua massima estensione consentita” in luogo del “massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse, la pubblica amministrazione può garantire all’espropriato” nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge (Corte cost. 188/1995; 179/1999; Cass. 10560/2008).

In conclusione, nell’impossibilità di fare riferimento a norme non più applicabili (art. 40, comma 3) e in assenza, allo stato degli atti, di un intervento legislativo successivo alla sentenza 181/2011, l’unica via percorribile sarà quella della determinazione del corrispettivo per la cessione volontaria con le medesime modalità ora possibili per il calcolo dell’indennità di espropriazione, ovverosia, sulla base del valore venale nel caso di aree non edificabili non coltivate (cfr. art. 39 L. n. 2359 del 1865) e in base al valore agricolo effettivo per le aree non edificabili e coltivate (cfr. art. 40, comma 1, D.P.R. 327/2001); non potranno invece essere applicate le maggiorazioni previste dall’articolo 45, comma 2, lett. c e d

P.Q.M.

La Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia esprime il proprio motivato avviso sul quesito riportato in epigrafe nei termini di cui in motivazione.

ORDINA

Alla Segreteria di procedere all’immediata trasmissione di copia conforme alla presente deliberazione al Sindaco del Comune di Gorizia, di pubblicare la presente deliberazione sul sito web della Sezione e di curare gli adempimenti necessari per la pubblicazione sul sito web istituzionale della Corte dei Conti.

Così deciso in Trieste nella Camera di Consiglio del 21 marzo 2012

Il Relatore Il Presidente

f.to d.ssa Innocenza Zaffina f.to dott. Antonio De Salvo

Depositata in Segreteria in data 22 marzo 2012.

Per Il preposto al Servizio di supporto

Coordinatore amministrativo

f.to dott. Andrea Gabrielli