Pensioni: ripetizione dell'indebito, danno da ritardo e buona fede del percettore

NOTA

Segnaliamo due interessanti pronunce della Sezione Piemonte della Corte dei conti sulla questione, ben nota alla pratica, della tutela spettante al pensionato nei confronti delle richieste dell’Istituto previdenziale di ripetizione dell’indebito (costituito dalla differenza tra trattamento provvisorio e definitivo di quiescenza) formulate a distanza di lungo tempo dall’erogazione del trattamento provvisorio di quiescenza.

La sentenza n. 65 si segnala per l’attento excursus dei profili di emersione della rilevanza assunta nell’ordinamento vigente (specialmente dopo la profonda revisione della L. 7 agosto 1990 n. 241) dallatutela dell’affidamento del privato nei confronti degli atti della P.A..

La sentenza n. 73 offre una disamina attenta e meditata dei precedenti nomofilattici delle SS.RR. (in particolare, SS.RR. 7/QM/2007 secondo cui nella fattispecie descritta l’irripetibilità consegue all’ “automatico consolidamento” della situazione di affidamento riposto nell’amministrazione, una volta decorso il termine per l’emanazione del provvedimento definitivo), soffermandosi altresì sul dibattuto tema dei rapporti tra la fattispecie di danno da ritardo prevista dall’art. 2-bis L. 7 agosto 1990 n. 241 e s.m.i. e la fattispecie del “ritardo dannoso” nella ripetizione dell’indebito.

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SENT. N. 65/12

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE PIEMONTE

In composizione monocratica nella persona del Giudice Unico Consigliere Dr. Tommaso Parisi, quale Magistrato a ciò delegato;

Visto il ricorso in materia di pensioni civili iscritto al nr. 18926/C del Registro di Segreteria, promosso da F. V., nato a Omissis il Omissis, rappresentato e difeso dall’Avvocato Andrea Castiglione, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avvocato Paolo Zaramella sito in Castiglione Torinese, Via Torino, nr. 238, avverso la determinazione dell’INPDAP di Cuneo nr. 18359 del 25.07.2011;

Uditi, nella pubblica Udienza del 15.03.2012, il relatore Dr. Tommaso Parisi, l’Avvocato Andrea Castiglione e l’Avvocato Michela Foti per l’Istituto previdenziale;
Esaminati gli atti ed i documenti tutti della citata causa;

Visto il T.U. delle Leggi sulla Corte dei Conti approvato con il R.D. 12 luglio 1934 nr.1214 ed il relativo Regolamento di procedura;

Visto il Decreto Legge 15 novembre 1993 nr. 453 convertito nella Legge 14 gennaio 1994 nr. 19;

Visto il Decreto Legge 23 ottobre 1996 nr. 543 convertito nella Legge 20 dicembre 1996 nr. 639;

Vista la Legge 21 luglio 2000 nr. 205;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Fatto e Diritto

Il ricorrente ha impugnato la determinazione in epigrafe con la quale l’Istituto previdenziale ha individuato nei suoi confronti un debito complessivo pari ad Euro 12.013,30, a fronte delle maggiori somme percepite, rispetto a quelle effettivamente spettanti, a valere sul proprio trattamento pensionistico, iscrizione nr. 10202579, nel periodo dal 30.04.1997 alla data di accertamento dell’indebito.

Dagli atti risulta che parte attrice, già Sottufficiale nell’Arma dei Carabinieri, è stato collocato in congedo per dimissioni volontarie a decorrere dal 30.04.1997, con relativo trattamento provvisorio di quiescenza; con decreto nr. 4857 del 04.05.2011 il Comando Legione Carabinieri Piemonte e Valle d’Aosta ha attribuito al ricorrente la pensione definitiva per un importo inferiore rispetto all’assegno provvisorio.

A seguito dell’applicazione del citato decreto è emerso a carico dell’interessato un debito di Euro 12.013,30, per il periodo sopra indicato, che l’Istituto previdenziale ha intimato di rifondere con il provvedimento impugnato, disponendo, nel contempo, il recupero della citata somma mediante una ritenuta cautelativa mensile sull’assegno di quiescenza di Euro 429,05, a partire dalla rata del mese di settembre 2011.

Nell’atto introduttivo del giudizio la difesa di parte attrice, in via preliminare, eccepisce la prescrizione del diritto vantato dall’INPDAP, mentre nel merito deduce la buona fede del proprio assistito ed il lunghissimo tempo trascorso prima della richiesta di recupero, chiedendo la declaratoria di irripetibilità dell’intero indebito con conseguente istanza di restituzione delle somme trattenute, oltre interessi e rivalutazione monetaria; al riguardo, invoca la Sentenza delle Sezioni Riunite di questa Corte nr. 7/QM/2007.

L’Avvocatura dell’INPDAP si è costituita in giudizio come INPS ai sensi dell’articolo 21, comma 2 bis, del D.L nr. 201 del 2011, convertito dalla Legge nr. 214 del 2011, con articolata memoria depositata in data 05.03.2012, formulando, in via pregiudiziale, richiesta di integrazione del contraddittorio con l’Ente datore di lavoro, mentre nel merito ha chiesto il rigetto del ricorso e dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa, nonchè il riconoscimento del diritto di rivalsa nei confronti della suddetta Amministrazione.

Nel corso della discussione il legale dell’Istituto previdenziale ha insistito sulla richiesta di integrazione del contraddittorio con l’Ente datore di lavoro, depositando due recenti pronunce della I Sezione Giurisdizionale Centrale di questa Corte.

Ciò premesso, il ricorso si appalesa fondato.

In via pregiudiziale, la richiesta di integrazione del contraddittorio formulata dall’Avvocatura dell’INPDAP non sollecita il favorevole scrutinio di questo Giudice, in relazione alle motivazioni concernenti la domanda subordinata dell’Istituto previdenziale per il riconoscimento del diritto di rivalsa nei confronti dell’Ente datore di lavoro, espresse nel prosieguo della presente pronuncia. Merita evidenziare, inoltre, che il provvedimento di recupero impugnato, oggetto esclusivo della presente causa, è stato emesso autonomamente dall’Istituto previdenziale.

In via preliminare, accogliendo la specifica deduzione prospettata dalla difesa di parte attrice, deve essere dichiarata la prescrizione del diritto dell’Istituto previdenziale a recuperare le somme percepite dall’interessato a valere sui ratei dell’assegno di quiescenza corrisposti sino al 25.07.2001, sul rilievo che il diritto dell’Amministrazione creditrice di ripetere ciò che ha indebitamente pagato a titolo di pensione è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, ai sensi dell’articolo 2946 del Codice Civile, e che il primo atto interruttivo della stessa è identificabile nella suddetta determinazione di recupero; in tale prospettiva, diversamente da quanto opinato dall’INPDAP, merita sottolineare il principio di carattere generale secondo il quale, nel caso di indebito pagamento di ratei di pensione poi risultati non spettanti, il termine di prescrizione per il recupero delle somme non dovute inizia a decorrere dalle rate dei singoli pagamenti e non dal momento in cui l’ufficio pagatore è venuto a conoscenza del fatto ostativo alla corresponsione dell’emolumento, atteso che l’ignoranza del diritto alla restituzione, pur se eventualmente non imputabile all’Amministrazione, costituisce impedimento di mero fatto e come tale non può dalla medesima essere invocata, a mente dell’articolo 2935 del Codice Civile, per sottrarsi alle conseguenze del regime prescrizionale.

Sullo sfondo, infine, si staglia la circostanza, di rilievo assorbente, che il diritto pensionistico trae origine, anche per quanto concerne il profilo legato alla sua misura, direttamente dalla Legge, per cui l’Amministrazione deve porre in essere, allo scopo di assicurare il suo pieno soddisfacimento, un mero atto di natura paritetica, elemento, quest’ultimo, idoneo a suffragare ulteriormente il menzionato assunto, incentrato sull’esordio del termine prescrizionale coincidente con il pagamento di ogni singolo rateo dell’assegno.

Venendo al merito della domanda prospettata dal ricorrente, questo Giudice non ignora l’autorevole arresto delle Sezioni Riunite di questa Corte dei Conti, esplicitato nella Sentenza nr. 1/QM/99, e la giurisprudenza del Giudice amministrativo invocata dall’Istituto previdenziale, ma non ritiene di potervi prestare assoluta ed incondizionata adesione laddove ricorra la circostanza, come nella presente fattispecie, di un trattamento provvisorio di quiescenza perpetuatosi ingiustificatamente per un periodo lunghissimo ed abnorme, a fronte dell’obbligo dell’Amministrazione, a partire dall’entrata in vigore della Legge nr. 241 del 1990, di concludere il procedimento volto alla liquidazione dell’assegno definitivo, nell’ipotesi di pensioni ordinarie, entro termini molto brevi e già prefissati dalla Legge e dai rispettivi Regolamenti; in tale ottica, cade opportuno enfatizzare un elemento ulteriore atto a suffragare il proprio contrario avviso, rispetto al principio affermato dalle Sezioni Riunite, identificato dalla constatazione che l’indebito deriva esclusivamente da un errore commesso dall’Amministrazione nella definizione del trattamento provvisorio di pensione, che pertanto non può ricadere a distanza di moltissimi anni, in armonia con il precetto contenuto nell’articolo 38 della Costituzione coordinato con il principio di solidarietà ad esso sotteso, in danno delle ragioni del percettore, sorrette da incontestabile buona fede (ex multis III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 236 del 2006, Sezione Giurisdizionale Trentino – Alto Adige – Bolzano, Sentenza nr. 48 del 2006, Sezione Giurisdizionale Basilicata, Sentenza nr. 111 del 2005, Sezione Giurisdizionale Umbria, Sentenza nr. 247 del 2002).

La Sezione, in linea con quest’ultimo assunto, evidenzia che una parte della giurisprudenza della Corte dei Conti, in contrapposizione con il suddetto orientamento esegetico più rigido, facendo leva su un’interpretazione estensiva dell’articolo 206 del D.P.R. nr. 1092/1973, attribuisce rilevanza, in tema di ripetizione dell’indebito correlato al pagamento di pensioni provvisorie, da parte dell’Istituto previdenziale o, in sede di rivalsa, dell’ex Amministrazione di appartenenza, alla buona fede del pensionato ed al lunghissimo intervallo temporale trascorso tra l’inizio dell’erogazione delle maggiori somme a valere sul trattamento di quiescenza, ordinariamente destinate al soddisfacimento dei bisogni primari del soggetto, attesa la loro modesta entità, e la notifica del provvedimento di recupero, idoneo a generare un legittimo affidamento nel percipiente, giuridicamente tutelabile, circa l’esattezza dell’importo dell’assegno in pagamento, frutto di un complesso ed articolato conteggio i cui eventuali errori non sono certamente riconoscibili dall’interessato (ex multis Sezione I Centrale, Sentenze nnrr. 99 del 2006, 426 del 2007, 509 del 2007, 311 del 2009 e 194 del 2011, Sezione II Centrale, Sentenze nnrr. 142 e 223 del 2011, Sezione III Centrale, Sentenze nnrr. 161 e 199 del 2011, Sezione Giurisdizionale Campania, Sentenza nr. 406 del 2001, Sezione Giurisdizionale Piemonte, Sentenze nnrr. 640 del 2000, 1005 del 2003 e 1999 del 2003, Sezione Giurisdizionale Sicilia, Sentenza nr. 1 del 2004, Sezione Giurisdizionale Marche, Sentenza nr. 783 del 2006).

Del resto, occorre assumere come parametri di riferimento anche i cosiddetti principi di garanzia elaborati dal Diritto comunitario, in quanto tali non derogabili dal legislatore nazionale, tanto più in funzione della scelta compiuta dal novellato articolo 1, comma 1, della Legge nr. 241 del 1990: la sottoposizione, in termini generali, dell’attività amministrativa ai canoni di matrice comunitaria. Fino a questo momento, infatti, le norme di Legge nazionali che richiamavano tali postulati operavano un rinvio settoriale, limitato ai principi elaborati nella materia regolata; un rinvio, quindi, meramente ricognitivo, in considerazione della riconosciuta prevalenza della fonte comunitaria in ipotesi di contrasto con la fonte interna, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale della Corte Costituzionale. Nel contesto della normativa attualmente vigente, invece, come dimostra la lettura della cennata disposizione della Legge nr. 241 del 1990 e la sede individuata per consacrare l’innovazione, l’universo del procedimento e dell’azione amministrativa è interamente pervaso, per espressa formulazione della Legge, dai principi dell’ordinamento comunitario, con il corollario che determinati canoni rappresentano prescrizioni irrinunciabili per il legislatore nazionale e per l’interprete, in quanto patrimonio giuridico comune nell’ottica di una sempre più penetrante integrazione europea. Tra i diversi principi di garanzia viene costantemente evocato quello della tutela del legittimo affidamento; nel Diritto comunitario il canone della tutela delle “legittimate expectations” è volto a garantire l’affidamento ragionevole formatosi in relazione a date circostanze di fatto e di diritto, quale derivazione del più generale postulato della certezza del diritto (ex multis Corte di Giustizia, Decisione Mavridis del 1983, in causa C-289/81, Decisione Falck s.p.a. del 2002, in cause riunite C-74/00 e C-75/00). Nel nostro ordinamento il principio si traduce, secondo giurisprudenza ormai consolidata, in un preciso limite all’adozione di provvedimenti negativi o sfavorevoli, quando siano emanati a notevole distanza temporale dal verificarsi della fattispecie legittimante, ovvero in presenza di elementi che rendano razionalmente ammissibile la conservazione di effetti prodotti da provvedimenti illegittimi, ovvero in presenza di un contegno tenuto dall’Amministrazione che sia idoneo a suscitare legittimi affidamenti (ex multis Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, Decisione nr. 20 del 1992), tutte circostanze che si attagliano perfettamente all’ipotesi, oggetto della presente controversia, di avvio dell’azione di recupero di somme indebitamente percepite dopo moltissimi anni dall’inizio dell’erogazione ed in assenza di colpa del percettore. D’altra parte, anche nella giurisprudenza più recente del Giudice amministrativo si rinvengono massime che prendono l’abbrivo dall’esigenza di tutelare il canone del legittimo affidamento rispetto all’azione della Pubblica Amministrazione, il quale richiama i principi di diritto comune della correttezza e della buona fede: “tra le condizioni che conferiscono consistenza alla posizione soggettiva va annoverato il decorso del tempo, che consolida l’affidamento sulla piena legittimità dell’assetto degli interessi disposto dall’Amministrazione con l’atto” (Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione nr. 5133 del 2002); “la considerazione della situazione giuridica del privato è in funzione del decorso del tempo, dovendosi ritenere che, quando l’annullamento d’ufficio sopravviene dopo un significativo lasso di tempo, l’affidamento che il privato pone sul provvedimento oggetto di annullamento si sia ormai consolidato” (Consiglio di Stato, Sezione V, Decisione nr. 6554 del 2004); “l’inosservanza del termine per provvedere dà luogo ad un danno (da ritardo) risarcibile ex se, in quanto lede l’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa” (Consiglio di Stato, Sezione IV, Decisione nr. 875 del 2005); “la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici tendono a prevalere, in determinati casi, sul principio di legalità; atti dell’Autorità – seppure illegittimi – possono, cioè, aver prodotto nei destinatari un affidamento circa i vantaggi loro assicurati, affidamento che non può essere sacrificato in ragione di motivi di interesse pubblico” (TAR Lazio, Sezione III, Decisione nr. 76 del 2007); “l’affidamento è l’aspettativa di coerenza dell’Amministrazione con il proprio precedente comportamento, la quale è fonte di un obbligo, per l’Amministrazione, di comportarsi secondo buona fede tenendo in adeguata considerazione l’interesse dell’amministrato, la cui protezione non si presenta come il prodotto, accessorio, della cura dell’interesse pubblico, ma come l’oggetto di una autonoma pretesa, contrapposta all’interesse dell’Amministrazione” (TAR Lombardia, Milano, Sezione III, Decisione nr. 1455 del 2010).

Il principio di tutela dell’affidamento e della buona fede ha trovato cittadinanza anche nell’ordinamento tributario, ricevendo una formale consacrazione normativa per effetto dell’entrata in vigore della Legge nr. 212 del 2000 (Statuto dei diritti del contribuente), il cui articolo 10 stabilisce espressamente che i rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria devono essere improntati al canone della collaborazione e della buona fede; al riguardo, giova mettere in risalto che la Suprema Corte, Sezione V, ha costantemente precisato in numerose pronunce (ex multis Sentenze nr. 17576 del 2002 e nr. 21513 del 2006) che il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino, con riferimento al canone della certezza e della sicurezza giuridica, ha valenza costituzionale, sul rilievo che trova il suo principale e diretto fondamento nel postulato di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla Legge propugnato dall’articolo 3 della Carta; ne discende, secondo la Corte di Cassazione, che la protezione dell’affidamento è invocabile anche ai rapporti tributari sorti in epoca anteriore all’entrata in vigore del citato Statuto del contribuente.

Nella medesima prospettiva, infine, non è superfluo sottolineare che la stessa Corte Costituzionale, nella Sentenza nr. 166 del 1996, ha nuovamente evidenziato, riecheggiando un canone già affermato nella pronuncia nr. 431 del 1993, che nel settore previdenziale sembra essersi affermato un principio di settore per cui “diversamente dalla regola civilistica di incondizionata ripetibilità dell’indebito, trova applicazione la diversa regola, propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione in presenza di una situazione di fatti aventi come minimo comune denominatore la non addebitabilità al percipiente dell’erogazione non dovuta”.

Chiarite tali premesse in termini generali, nella presente fattispecie ricorrono entrambe le descritte condizioni enucleate dalla suddetta giurisprudenza, atteso che il provvedimento dell’INPDAP impugnato, contenente la richiesta di recupero delle somme indicate in premessa, è intervenuto a distanza di oltre quattordici anni dall’esordio della corresponsione del trattamento provvisorio di quiescenza, mentre la buona fede del pensionato non può essere messa in discussione. Tale assunto è suffragato anche dalla Sentenza delle Sezioni Riunite di questa Corte nr. 7/QM/2007; al riguardo, la Sentenza delle Sezioni Riunite nr. 7/QM/2011, invocata dall’INPDAP nella memoria di costituzione, non si riferisce direttamente alla questione dell’indebito pensionistico, ma attiene al diverso profilo dell’eventuale cristallizzazione del trattamento di quiescenza provvisorio in funzione del decorso del tempo, con il precipitato che le ulteriori affermazioni del menzionato Consesso sulla tematica oggetto della presente controversia rivestono il tenore di semplici “obiter dictum”, non idonei ad assurgere al rango di principio di diritto in materia.

Quanto alla tesi suggestiva incentrata sul danno da ritardo, teorizzata dall’Istituto previdenziale in relazione alle argomentazioni di cui alla Sentenza della I Sezione Giurisdizionale Centrale di questa Corte nr. 449 del 2011, che peraltro sino a questo momento si inserisce nel filone minoritario della giurisprudenza (Sezioni Riunite, Sentenza nr. 16/QM/2011), questo Giudice reputa che il menzionato istituto, disciplinato dall’articolo 2 bis della Legge nr. 241 del 1990 introdotto dall’articolo 7 della Legge nr. 69 del 2009, non sia compatibile con la specifica fattispecie afferente all’indebito pensionistico; in tale ottica, è sufficiente osservare, a prescindere dalla natura cumulativa e non certo esclusiva della predetta tutela a beneficio del cittadino, che il citato danno da ritardo, il quale presuppone evidentemente il verificarsi di un pregiudizio ingiusto, si collega pur sempre, secondo la pacifica giurisprudenza del Giudice amministrativo, alla figura dell’interesse legittimo nei termini di una posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo ed inscindibile, ad un concreto interesse materiale del titolare ad un “bene della vita”, ciò nondimeno nell’ipotesi del suddetto indebito il “bene della vita”, rappresentato dall’erogazione dell’assegno di quiescenza, non solo è stato immediatamente conseguito dall’interessato all’atto del collocamento in congedo, ma addirittura in misura superiore rispetto all’importo effettivamente spettante.

Venendo, infine, alla richiesta della difesa di corresponsione anche degli accessori sulle somme recuperate e trattenute in via cautelativa dall’Amministrazione resistente, la stessa non sollecita il favorevole scrutinio di questo Giudice. In tale ottica, preme evidenziare che il generale principio di irripetibilità delle somme indebitamente erogate a soggetti in buona fede non consegue ad inadempimento o a ritardato adempimento di un’obbligazione, ma concerne importi effettivamente non dovuti i quali, tuttavia, per i motivi in precedenza tratteggiati, non devono essere restituiti dal percettore, anche al fine di tutelare il suo legittimo affidamento maturato nel corso del tempo; siffatta rifusione da parte dell’Istituto previdenziale, pertanto, non inerendo certamente ad un debito, non può generare interessi corrispettivi o moratori né, tanto meno, può essere suscettibile di rivalutazione (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 376 e nr. 509 del 2007, nr. 81 del 2008 e nr. 311 del 2009, III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenze nr. 725 del 2010 e nr. 199 del 2011).

La domanda subordinata formulata dall’INPDAP, tendente ad ottenere in questa sede la condanna dell’Ente datore di lavoro alla rifusione di una parte delle somme erogate al ricorrente, si appalesa inammissibile, sul rilievo che, in disparte la questione di giurisdizione, già di per sé incerta, da una parte, non sussiste, allo stato, alcuna controversia con il menzionato Ente, né, tanto meno, risulta possibile instaurare il relativo contraddittorio, in quanto la richiesta dell’INPDAP esula completamente dall’oggetto specifico del presente gravame identificato dal “petitum” e dalla “causa petendi” prospettati da parte attrice, introducendo un tema del tutto nuovo rispetto al titolo che contraddistingue il ricorso introduttivo, nei confronti peraltro di un soggetto diverso dal ricorrente ed estraneo al giudizio, dall’altra, osta alla richiesta dell’Istituto previdenziale la chiara disciplina riveniente dagli articoli 62 del R.D. nr. 1214 del 1934 e 71, lettera b) del R.D. nr. 1038 del 1933, come interpretati dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte, secondo cui è necessario che la domanda promossa in sede giurisdizionale sia stata preceduta da una valutazione dell’Amministrazione in via amministrativa e che, in difetto, il ricorso non possa considerarsi ammissibile (ex multis Sezioni Riunite nr. 66/C del 1987, III Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 237 del 2004, II Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 5 del 2005, I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 121 del 2007). Al riguardo, l’Istituto previdenziale potrà eventualmente valutare la possibilità di agire nei confronti dell’Ente datore di lavoro nell’ambito di un autonomo e distinto giudizio.

Per quanto esposto in narrativa, deve essere dichiarata l’irripetibilità integrale delle maggiori somme a valere sul trattamento pensionistico, pari ad Euro 12.013,30 percepite dal ricorrente nel periodo dal 30.04.1997 alla data di accertamento dell’indebito, con conseguente obbligo dell’Istituto previdenziale di restituire gli importi recuperati.

Sussistono eccezionali motivi per disporre la compensazione delle spese tra le parti, considerate la natura e la complessità della presente controversia, nonché le difficoltà interpretative rivenienti dal quadro normativo di riferimento in materia e le oggettive oscillazioni giurisprudenziali, anche tenendo conto che l’invocata Sentenza delle Sezioni Riunite nr. 7/QM/2007, non riveste efficacia vincolante per il Giudice di primo grado, in funzione del principio di diritto affermato dalle stesse Sezioni Riunite nella Sentenza nr. 8/QM/2010.

P.Q.M.

La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Piemonte, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando

ACCOGLIE PARZIALMENTE

Il ricorso proposto da F. V. e, per l’effetto, dichiara l’irripetibilità integrale delle maggiori somme a valere sul trattamento pensionistico, percepite dal ricorrente nel periodo dal 30.04.1997 alla data di accertamento dell’indebito, con conseguente obbligo dell’Istituto previdenziale di restituire gli importi recuperati.

Spese di giudizio compensate.

Così deciso in Torino, nella Camera di Consiglio del 15.03.2012.

IL GIUDICE UNICO

(F.to Dr. Tommaso Parisi)

Depositata in Segreteria il 20 Aprile 2012

Il Direttore della Segreteria

(F.to Antonio Cinque)

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sent. N. 73/12
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

la Corte dei Conti

Sezione giurisdizionale per la regione Piemonte

in composizione monocratica nella persona del magistrato dott.ssa Ilaria Annamaria Chesta, quale giudice unico ai sensi dell’art. 5 della legge 21 luglio 2000, n. 205, come modificato dall’articolo 42 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18828/C del registro di Segreteria, proposto dal signor P. Sac. Prof. G. P. (C.F. Omissis), nato a Omissis il Omissis e residente in Omissis, C.so Omissis, riassunto, a seguito di decesso del ricorrente in data 19 gennaio 2012, con comparsa di costituzione dagli eredi P. G. (C.F. Omissis), nato a Omissis il Omissis, residente in Omissis, Strada Omissis in qualità di fratello del de cuius, V. M. (C.F. Omissis) nata a Omissis il Omissis, residente in Omissis, Piazza Omissis, in qualità di figlia della sorella del de cuius ( P. R., nata a Omissis il Omissis e deceduta il 7.8.2007), P. L. (C.F. Omissis), nata a Omissis il Omissis, residente in Omissis, Via Omissis, in qualità di sorella del de cuius (rappresentata in causa dalla figlia F. S., (C.F. Omissis) nata a Omissis il Omissis, residente in Omissis, Via Omissis, in forza di procura speciale 7.2.2012, rogito notaio Alberto Vesce prodotto in atti al doc. 4) tutti rappresentati e difesi (come in precedenza il de cuius) dagli avv.ti Giuseppino e Carlo Bosso presso lo studio dei quali sono elettivamente domiciliati in Torino, Corso Duca degli Abruzzi n. 55, giusta delega ed elezione di domicilio a margine della comparsa di costituzione e risposta

contro

I.N.P.S. – Istituto nazionale della previdenza sociale – con sede in Roma, via Ciro il Grande n. 21 (c.f. 80078750587), in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, Antonio Mastropasqua, quale ente subentrante dell’INPDAP -Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche – C.F. 97095380586- (ex art. 21 d.l. n. 201/2011 convertito dalla legge n. 214/2011) rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avv.ti Giorgio Ruta (RTU GRG 55C09 H501X – giorgio.ruta@postacert.inpdap.gov.it), Michela Foti (FTO MHL 68H68 F158V – michela.foti@postacert.inpdap.gov.it) e Patrizia Sanguineti (SNG PRZ 69A66 D969D -patrizia.sanguineti@postacert.inpdap.gov.it) dell’Avvocatura dell’Istituto, ai sensi del comma 2 bis dell’art. 21 d.l. n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011, in forza di procura generale alle liti in data 16 febbraio 2012, per rogito notaio Paolo Castellini in Roma (in atti);

VISTI il R.D. 13 agosto 1933, n. 1038; il D.L. 15 novembre 1993, n. 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19; la legge 14 gennaio 1994, n. 20; la legge 21 luglio 2000, n. 205;

VISTI gli atti e i documenti di causa;

UDITE, all’udienza del 27 marzo 2012, le parti presenti come risulta dal verbale di udienza;

FATTO

Con ricorso depositato presso la segreteria della Sezione in data 27 aprile 2011 il Sac. Prof. G. P. P. ha evocato in giudizio l’INPDAP – ora INPS per sentire dichiarare l’irripetibilità dell’indebito pensionistico dell’importo di euro 14.891,65, di cui alla nota di recupero INPDAP in data 1 febbraio 2011 prot. 30889/GG (doc. 1 prodotto dai ricorrenti); nota con la quale è stata altresì disposta la ritenuta di euro 69,07 a decorrere dal rateo di marzo 2011.

Il Signor P. cessava, per dimissioni, dalla propria attività di insegnante in data 1 settembre 1991 e da allora percepiva pensione diretta iscritta al n. 12052210, erogata dall’INPDAP (ora INPS).

Con nota prot. 12685 in data 15 maggio 1992 (cfr. fascicolo amministrativo) il Ministero della Pubblica Amministrazione, Provveditorato agli Studi di Torino, liquidava a favore del ricorrente la pensione ordinaria provvisoria annua di L. 7.713.543 a decorrere dall’1.9.1991. Con decreto n. 998 in data 23 agosto 2004 il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Centro Servizi Amministrativi di Torino, determinava il trattamento di quiescenza definitivo nella misura lorda di L. 6.693.800.

Con nota in data 1.2.2011, prot. 30889 l’INPDAP quantificava l’entità del credito erariale derivante dal conguaglio tra il trattamento di pensione ordinaria provvisoria e definitiva, derivante dall’applicazione del decreto di determinazione di pensione definitiva n. 998/2004, nell’importo di euro 15.721,92, per somme corrisposte in eccesso nel periodo dal 1 gennaio 1991 al 28 febbraio 2011.

L’indebito veniva quindi rideterminato, in applicazione dell’art. 1, commi 260-265 della l. n. 662/1996, in euro 14.871,76, con riduzione del 25% del medesimo credito erariale e deduzione di un somma corrispondente a euro 830,27. Alla predetta somma si aggiungeva un ulteriore “recupero di euro 19,89 per ritenute di quiescenza e previdenza” per un accertato debito totale, fatto oggetto di recupero, corrispondente a euro 14.891,65.

L’INPDAP aveva in precedenza, con nota in pari data 1.2.2011 prot. 30889/GG (doc. 4 di parte ricorrente), comunicato l’avvio del procedimento di recupero al ricorrente.

Con l’atto introduttivo del giudizio il ricorrente invoca “l’annullamento” dell’atto di recupero e la dichiarazione di irripetibilità delle somme di cui alla nota INPDAP in data 1.2.2011. A tal fine richiama, in particolare, a supporto della prospettazione difensiva, la pronuncia delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 7/QM/2007 e, facendo leva sul predetto autorevole precedente, fa rilevare che “in considerazione del lungo tempo trascorso (circa venti anni) e dell’assoluta buona fede del ricorrente (il quale neppure oggi è in grado di comprendere il motivo per cui l’indebito si è formato), si ritiene che l’indebito debba essere integralmente annullato”. In via meramente subordinata, il ricorrente formula domanda di declaratoria la prescrizione.

In seguito al deposito del ricorso veniva fissata udienza di discussione del giudizio al 26 settembre 2011.

Si costituiva l’INPDAP, con memoria depositata in data 15 settembre 2011, richiedendo preliminarmente la sospensione del giudizio in attesa della decisione da parte delle Sezioni Riunite della Corte dei conti sulla questione, rimessa con ordinanza n. 36/2011 della Sezione Giurisdizionale per il Piemonte, concernente il punto di diritto rilevante ai fini della decisione del giudizio. L’Istituto previdenziale evidenziava quindi la doverosità dell’actio indebiti contestando le conclusioni raggiunte in termini di irripetibilità dell’indebito dalla sentenza n. 7/QM/2007, in relazione ad una pluralità di profili. In via subordinata, richiedendo previamente la chiamata in causa del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, l’INPS invocava il riconoscimento del diritto dell’Istituto ad agire in rivalsa nei confronti dell’amministrazione statale con “conseguente condanna di quest’ultimo a manlevare l’Inps (già Inpdap) da un’eventuale pronuncia di irripetibilità delle somme indebitamente percepite dal ricorrente e di restituzione di quanto ad oggi trattenuto sul trattamento di quiescenza e/o da un’eventuale pronuncia di prescrizione del relativo diritto di ripetizione”.

L’udienza pubblica originariamente fissata in data 26 settembre 2011 è stata rinviata, per oggettivo impedimento del Giudice, e nuovamente fissata al 28 febbraio 2011.

Con comparsa in riassunzione in data 16 febbraio 2012 gli eredi del ricorrente, come indicati in epigrafe e risultanti da dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in data 23.1.2012 (doc. 5), hanno dato atto del decesso del signor G. P. P. in data 19 gennaio 2012, producendo a tal fine il certificato di morte (doc. 4) e costituendosi per la prosecuzione del giudizio.

Con il libello difensivo gli eredi hanno richiamato integralmente i contenuti del ricorso e le conclusioni rassegnate.

Con memoria difensiva in data 17 febbraio 2012 si è costituita in giudizio l’INPS (succeduto ex lege all’INPDAP), prendendo atto della costituzione degli eredi del ricorrente per la prosecuzione del giudizio.

L’INPS, replicando alla prospettazione avversaria, ha evidenziato come l’atto di recupero, adottato ai sensi dell’art. 2033 c.c., a fronte di somme indebitamente erogate dalla P.A., si configuri come doveroso “ a prescindere dal tempo più o meno lungo durante il quale la percezione delle somme si è protratta, con l’unico limite delle modalità di recupero che non devono essere eccessivamente gravose”. L’Istituto previdenziale ha quindi richiamato il filone della giurisprudenza amministrativa orientata ad affermare che il diritto-dovere di recuperare le somme indebitamente erogate non è rinunciabile, con la conseguenza che la buona fede del percettore acquisterebbe rilevanza solo sul piano delle modalità delle restituzione; in tale contesto ha posto in evidenza come parte della dottrina e della giurisprudenza contabile (SS.RR. n. 7/QM/2011; sentenza della Prima sezione centrale d’Appello n. 449/2011) ritenga di non poter condividere il pronunciamento delle SS.RR. della Corte dei conti n. 7/QM/2007, secondo cui l’irripetibilità consegue all’ “automatico consolidamento” della situazione di affidamento riposto nell’amministrazione, una volta decorso il termine per l’emanazione del provvedimento definitivo. L’INPS ha inoltre rilevato come l’intera vicenda attinente alla determinazione della pensione provvisoria e definitiva sia, nel caso di specie, di stretta competenza dell’amministrazione ex datrice di lavoro, insistendo nella domanda- proposta in via subordinata- di integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero e di condanna di quest’ultimo.

All’udienza del 28 febbraio 2012 è comparsa per gli eredi P. l’avv. Barbara Di Ventura, delegata dall’avv. Giuseppino Bosso e l’avv. Patrizia Sanguineti, in rappresentanza dell’INPS. Rilevata la necessità di instaurare il contraddittorio tra le parti in ordine alla questione dell’applicabilità o meno, al caso di specie, del principio di irripetibilità dell’indebito pensionistico nei confronti degli eredi del pensionato (salva l’ipotesi di solo), ai sensi dell’art. 1, comma 263, legge n. 662/1996 e della successivo art. 38, comma 10, legge n. 448/2001, è stato assegnato, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., termine alle parti per il deposito di memorie in ordine alla questione delineata, fissando udienza al 27 marzo 2012.

Gli eredi P. e l’Istituto convenuto hanno depositato memoria autorizzata, rispettivamente, in data 5 marzo e in data 16 marzo 2012.

All’udienza pubblica in data 27 marzo 2012 sono comparsi l’avv. Nadia Buso, delegata dall’Avv. Carlo Bosso e l’Avv. Giorgio Ruta, in rappresentanza dell’INPS, che hanno richiamato i rispettivi atti difensivi insistendo per l’accoglimento delle conclusioni.

Il giudizio è stato quindi assunto in decisione e definito con lettura del dispositivo ai sensi dell’art. 429 c.p.c..

Considerato in
DIRITTO

I. In limine litis si evidenzia come non ricorrano nel caso di specie i presupposti per un’interruzione del giudizio ai sensi dell’art. 5, comma 3, della legge 21 luglio 2000, n. 205.

Come chiarito da autorevole giurisprudenza contabile, la disciplina dettata dal citato art. 5 della l. n. 205/2000, che prevede la dichiarazione d’ufficio dell’interruzione del giudizio, con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della relativa comunicazione, ogni qual volta al Giudice “risulti” il decesso del ricorrente è infatti volta, nelle ipotesi in cui il ricorrente (in particolare qualora non rappresentato) è deceduto nelle more del giudizio e il Giudice ne è informato – di norma dall’Ente convenuto- a consentire agli eredi, previa valutazione di convenienza, se proseguire o non il giudizio intrapreso dal de cuius (Corte dei conti, Sez. Giur. Veneto, n. 356/2011).

La disposizione disciplina in particolare l’ipotesi in cui la parte è costituita personalmente, andando ad integrare il disposto dell’art. 300, comma 3, c.p.c. (Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia, n. 3713/2011).

Cionondimeno la predetta disposizione non preclude che gli eredi possano proseguire il giudizio prima della formale interruzione pronunciata dal Giudice; in tal senso è stato chiarito che “l’atto di riassunzione possa essere prodotto dagli eredi ancor prima della formale interruzione pronunciata dal Giudice, con risparmio di tempo ed economia processuale” (Corte dei conti, Sez. Giur. Veneto, n. 356/2011).

Nel caso di specie gli eredi del signor P., come risultanti da dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (cfr. doc. 5 prodotto dal ricorrente), non contestata dall’Istituto previdenziale, si sono determinati a proseguire il giudizio originariamente radicato dal de cuius, depositando comparsa di costituzione versata in atti in data 16 febbraio 2012.

Il deposito della comparsa, è idoneo a garantire la corretta instaurazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 302 c.p.c. che prevede che “ Nei casi previsti dagli articoli precedenti (cfr. nel caso di specie l’art. 300 c.p.c.) la costituzione per proseguire il processo può avvenire all’udienza o a norma dell’art. 166 c.p.c…”.

Nel caso di specie il contraddittorio tra le parti si è ampiamente realizzato anche con scambio di memorie autorizzate, come indicato in narrativa.

L’INPS ha avuto modo di spiegare compiutamente le proprie difese, formulando le conseguenti conclusioni, con le quali ha accettato espressamente il contraddittorio. Una diversa determinazione si risolverebbe in un pregiudizio ingiustificato al principio di economicità processuale.

II. Ancora in via preliminare si rileva che, per effetto della soppressione dell’INPDAP, intervenuta a far data dal 1 gennaio 2012, in forza dell’art. 21, comma 1, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge n. 214/2011, l’INPS, quale successore a titolo universale dell’ente soppresso, si è costituito in giudizio con comparsa di costituzione in data 17 febbraio 2012, con la rappresentanza e difesa dei legali indicati in epigrafe (ai sensi dell’art. 21 comma 2 bis del citato d.l.), subentrando nel presente processo all’INPDAP.

L’INPDAP risultava peraltro già costituita, per il tramite di proprio funzionario, con memoria difensiva depositata in epoca anteriore alla soppressione ex lege del medesimo Istituto.

Il processo, anche in relazione a tale profilo, non è quindi soggetto ad interruzione e prosegue ai sensi dell’art. 302 c.p.c. in quanto la parte convenuta, prima in proprio e quindi con il suo successore, risulta ritualmente presente in giudizio (Cass., Sez. V, n. 17860/2004).

III. Sempre in via preliminare va esaminata la domanda di integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero dell’Istruzione, della Università e della Ricerca, avanzata dall’INPS (già INPDAP), in ragione della ritenuta qualità di “litisconsorte necessario” di quest’ultimo “laddove si controverte in materia di indebito insorto a seguito di conguaglio tra pensione provvisoria e pensione definitiva e/o da responsabilità da ritardo” essendo sia il provvedimento provvisorio sia quello definitivo di pensione emessi dal datore di lavoro.

Nel caso di specie, la condizione di legittimato passivo, come chiarito da consolidata giurisprudenza contabile, è certamente ravvisabile nei confronti dell’INPS (già INPDAP).

La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste infatti nella titolarità di una situazione giuridica idonea ad abilitare un soggetto a promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale versato in causa, mediante deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore (Cass. SS.UU. n.12538/2011).

Su tali basi, l’Istituto, seppur ordinatore secondario di spesa, è riconosciuto pacificamente quale soggetto cui è attribuita legislativamente la titolarità della gestione del procedimento di recupero e l’adozione della relativa ingiunzione e che, in ipotesi di accoglimento del gravame, dovrà dare esecuzione alla sentenza.

Deve invece respingersi la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Basti in proposito rilevare che il presente giudizio ha ad oggetto in via esclusiva l’atto di recupero dell’indebito pensionistico emesso dall’INPDAP mentre la domanda del ricorrente non è volta a contestare la legittimità del decreto definitivo di pensione, adottato dal datore di lavoro, che non viene censurato in relazione alla rideterminazione del quantum del trattamento pensionistico.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale le attribuzioni di ordinatore principale e secondario di spesa riguardano la ripartizione di competenza interna all’apparato amministrativo e, ai fini della legittimazione passiva, si esclude che l’Amministrazione datrice di lavoro si configuri quale litisconsorte necessaria, allorquando, come nel caso di specie, non si faccia questione di vizi propri dei provvedimenti determinativi del trattamento pensionistico (ex plurimis Corte dei conti, Sez. giurisdizionale per il Piemonte, n. 142/2011).

Come precisato al punto V questo Giudice è, del resto, privo di giurisdizione in ordine all’accertamento concernente la distribuzione, tra ente previdenziale e Ministero dell’Istruzione, delle responsabilità conseguenti alla dichiarazione di irripetibilità del credito erariale derivante da indebito pensionistico e all’accollo dei relativi oneri finanziari.

La domanda di integrazione del contraddittorio proposta dall’INPS (già INPDAP) deve pertanto essere respinta.

IV. Può ora procedersi all’esame del merito del ricorso.

La domanda volta all’accertamento e dichiarazione di irripetibilità delle somme oggetto di recupero da parte dell’Istituto previdenziale si appalesa fondata.

La questione riguardante la ripetibililità o meno delle somme indebitamente erogate al pensionato a seguito di conguaglio tra trattamento provvisorio e definitivo, considerata l’estrema rilevanza delle problematiche alla medesima sottese e le ricadute conseguenti, è stata oggetto di ampia riflessione e di significativi arresti da parte dell’Organo nomofilattico della Corte dei conti.

Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con sentenza n. 1/QM/1999, si erano in origine attestate nell’ammettere la piena ripetibilità di indebiti maturati per differenza tra pensioni provvisorie godute e pensioni definitive liquidate per importi minori, in applicazione del principio posto dall’articolo 2033 c.c., ritenuto di valore generale, e sul presupposto che la clausola del “salvo conguaglio” di cui all’art. 162 del citato d.p.r. d.p.r. 29 dicembre 1973 n. 1092 escludesse comunque l’affidamento del pensionato, in fruizione di trattamento provvisorio, sulla misura di quanto di effettiva spettanza, fino alla liquidazione definitiva.

Tuttavia, questo orientamento è stato successivamente riconsiderato da parte delle stesse Sezioni Riunite, le quali, nella sentenza n. 7/QM/2007 hanno stabilito che “in assenza di dolo dell’interessato, il disposto contenuto nell’art. 162 del d.P.R. n° 1092 del 1973, concernente il recupero dell’indebito formatosi sul trattamento pensionistico provvisorio, deve interpretarsi nell’ambito della disciplina sopravvenuta contenuta nella legge n° 241 del 1990, per cui, a decorrere dall’entrata in vigore di detta legge n° 241 del 1990, decorso il termine posto per l’emanazione del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza, non può più effettuarsi il recupero dell’indebito, per il consolidarsi della situazione esistente, fondato sull’affidamento riposto nell’Amministrazione”.

Tale autorevole precedente del Giudice della nomofilachia, costituisce, allo stato, ius receptum configurandosi come principio di generale applicazione da parte della giurisprudenza sia in primo grado sia nelle sezioni di appello (per quanto attiene questa Sezione, ex plurimis, sentenze nn. 7, 106, 109, 110, 140, 146, 187, 235 del 2009; nn. 7, 68, 69, 72, 99, 135, 187 del 2010 e nn. 163, 185 del 2011).

Ciò deve ritenersi anche a seguito dell’intervento della successiva pronuncia delle Sezioni Riunite della Corte n. 16/QM/2011, che segue anche gli arresti delle SS.RR. n. 7/QM/2011 e della Prima Sezione centrale di Appello n. 449/2011, richiamate dalla difesa dell’INPDAP (ora INPS).

Con ordinanza 10 agosto 2011, n. 36/2011 il Giudice unico presso la Sezione giurisdizionale regionale per il Piemonte ha sottoposto alle Sezioni Riunite la seguente questione di diritto: “se il decorso dei termini procedimentali previsti ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, per l’adozione del provvedimento di liquida­zione definitiva della pensione e per l’effettuazione del conseguente conguaglio a debito del pensionato ex art. 162, comma 7, del ‘Testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato’ (approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092), comporti ipso facto, in ‘assenza di qualsiasi violazione dolosa del do­vere di correttezza’ da parte del pensionato, l’irripetibilità dell’indebito pensionistico (sent. 7/QM del 7 agosto 2007), o se, piuttosto, fermo restando in generale il diritto-dovere alla ripetizione dell’indebito da parte del- l’ente di previdenza (con modalità comunque ‘tali da non in­cidere soverchiamente sulle esigenze di vita del debitore’), un ‘com­pleto momento satisfattivo’ per il pensionato-percipiente in buona fede possa comunque realizzarsi, qualora l’adozione dell’atto definitivo ‘ri­sultasse oltremodo tardiva’, ‘nella sanzione del c.d. danno da ritardo procedimentale’, secondo quella che è stata indicata come ‘l’opzione preferita’, da ultimo, dalle Sezioni riunite medesime (sent. 7/QM del 26 maggio 2011)”.

La questione di massima è stata originata da un inciso, contenuto nell’ambito di un obiter dictum della sentenza n. 7/QM del 26 maggio 2011, dove le Sezioni Riunite, occupandosi di una questione distinta ma “contigua”, sono tornate nuovamente in argomento asserendo che il definitivo vaglio sulla pensione provvisoria “potrebbe, per svariati casi e motivi, superare i tempi definiti dal regolamento senza che – ed in questo si intende dar conto come sia rivisitabile e non esaustiva la sentenza (in un’ottica di approfondimento meditativo), prefata, n. 7 del 2007 di queste Sezioni Riunite – sia “de facto” applicabile il principio dell’irripetibilità delle somme erogate ma non dovute, semmai intervenendo la possibilità, in presenza di colpa dell’Amministrazione, del danno da ritardo (art. 7, comma 1, l. c) L. 18.6.2009 n. 69)”.

Le Sezioni Riunite, con la detta sentenza n. 16/QM/2011, hanno dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata con l’ordinanza n. 36/2011 di questa Sezione, per ritenuta insussistenza di contrasto giurisprudenziale nelle Sezioni giurisdizionali centrali di appello, rispetto alle quali si afferma che “l’orientamento consolidatosi nell’ultimo biennio recepisce il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 7/2007/QM”.

La stessa pronuncia n. 16/QM/2011 chiarisce come il precedente di cui alla SS.RR. n. 7/QM/2011 non possa essere ricondotto alla categoria dell’affermazione di principio di diritto in quanto laddove manifesta l’avviso della preferibilità della “teoria del danno da ritardo procedimentale”, assume carattere di mero obiter dictum, come tale non investito dell’autorità di giudicato poichè eccedente rispetto alla necessità logico-giuridica della domanda.

L’esistenza della decisione della Sezione prima giurisdizionale centrale 5 ottobre 2011, n. 449, quale unico precedente difforme, non consente di ritenere, secondo la prospettazione delle SS.RR., sussistenti reali divergenze giurisprudenziali tra le Sezioni di secondo grado, che l’indirizzo consolidato delle stesse Sezioni riunite confermano ritenere necessario presupposto per il vaglio di ammissibilità della questione rimessa.

Alla luce del quadro giurisprudenziale sopra esposto e, in particolare, di quanto chiarito dalle SS.RR. con la sentenza n. 16/QM/2011, deve ritenersi allo stato confermato, in via generale, il principio sancito dalla sentenza delle Sezioni Riunite n. 7/QM/2007, a garanzia dell’imprescindibile esigenza di certezza e uniformità nell’applicazione del diritto. Ciò pur considerando la natura non direttamente vincolante della medesima pronuncia per il Giudice di primo grado, in considerazione di quanto affermato dalle stesse Sezioni Riunite nella Sentenza nr. 8/QM/2010.

Del resto, si osserva come l’automatismo nella declaratoria di irripetibilità delle somme indebitamente corrisposte, una volta decorso il termine di conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 della l. n. 241/1990, come ritenuto dalla predetta pronuncia 7/QM/2007, sia stato oggetto di parziale rielaborazione, nel solco di una interpretazione adeguatrice, anche alla luce dell’evoluzione normativa successiva (Corte dei conti, sez. Puglia, n. 1186/2011; id. n. 712/2011; id. n. 82/2009; Corte dei conti, sez. Lombardia n. 681/2011).

In proposito va rilevato come il “fatto giuridico” dato dal decorso di un ampio lasso di tempo nella determinazione del trattamento di quiescenza definitivo operi, quanto agli effetti, su piani distinti, determinando conseguenze diverse, a seconda che si guardi, da un lato, alle “sanzioni” procedimentali derivanti dal superamento del termine di conclusione di cui all’art. 2 della l. n. 241/1990, come modificato dall’art. 7 della l. n. 69/2009, ovvero al diverso profilo del concreto ingenerarsi di una situazione di affidamento in capo all’accipiens in buona fede circa un pretesa definitività del trattamento corrisposto, ai fini della dichiarazione di irripetibilità delle somme indebitamente erogate in forza di provvedimento provvisorio.

Per il primo profilo (effetti sul piano procedimentale) va considerato che il mero superamento dei termini fissati dai regolamenti previsti dall’art. 2 secondo comma della legge n. 241 del 1990 non pare produrre tout court l’effetto di consolidare il provvedimento provvisorio in definitivo (Corte dei conti, sez. Lombardia n. 681/2011) né può ritenersi determinare una necessitata declaratoria di irripetibilità delle somme successivamente erogate, che esonererebbe il Giudice dalla valutazione dell’effettivo ingenerarsi di un affidamento tutelabile nelle singole fattispecie (Corte dei conti, sez. Puglia, n. 1186/2011).

Come chiarito dall’organo della nomofilachia “L’Amministrazione, una volta decorso il tempo previsto – con la via normativa del regolamento – per l’adozione del provvedimento, non decade dal potere di adozione di questo – poiché tale esito, di carattere sanzionatorio a tipologia decadenziale, non risulta previsto da nessuna disposizione generale, contrapponendosi ad esso, peraltro, i principi della continuità e della doverosità dell’azione amministrativa, nonché riposando sulla medesima “ratio” il potere di autotutela, che si snoda lungo un variabile ed indefinito lasso di tempo…” (SS.RR. n. 7/QM/2011).

La mancata osservanza dei termini procedimentali è infatti corredata da autonoma sanzione.

La legge 18 giugno 2009, n. 69 ha introdotto nelle legge generale sul procedimento amministrativo l’art. 2 bis e con esso la disciplina del danno da ritardo. Il comma 1 della predetta disposizione stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1 ter sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto causato dall’inosservanza, dolosa o colposa, dei termini procedimentali 2. (Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni)”.

Il secondo comma dell’art. 2 bis è stato abrogato e sostituito dall’art. 133, comma 1 lett. a) del d.lgs. n. 104/2010 (il c.d. Codice del processo amministrativo) che devolve alla giurisdizione del Giudice amministrativo le controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo” e dall’art. 30 comma 4 del medesimo decreto, che disciplina l’azione di risarcimento del danno da ritardo assoggettandola ad un termine decadenziale molto più rigoroso.

Ai sensi del citato art. 30 d.lgs. n. 104/2010 l’azione volta a conseguire il risarcimento del danno “che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” può essere avviata nel termine decadenziale di 120 giorni (e non più nel termine prescrizionale di cinque anni), che non decorre finchè perdura l’inadempimento; in ogni caso, ai sensi del secondo periodo del citato comma 4 “Il termine di cui al comma 3 (120 giorni) inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine di provvedere”.

Su tali elementi fa leva la difesa dell’INPDAP (ora INPS), giungendo ad affermare – sulla base di ampi richiami di giurisprudenza -che per l’adozione oltremodo tardiva del provvedimento definitivo di pensione vi sia un completo momento satisfattivo nella sanzione del c.d. “danno da ritardo” procedimentale ed escludendo, per tale via, che possa dichiararsi l’irripetibilità delle somme indebitamente corrisposte in ragione della doverosità dell’azione di recupero.

Va peraltro rilevato come il predetto rimedio dell’esperibilità dell’azione per danno da ritardo non paia pienamente satisfattivo delle ragioni del pensionato e come, in realtà, l’infruttuoso decorso del tempo, in determinate condizioni e realizzandosi un affidamento particolarmente solido nel percettore circa la definitività del provvedimento – da valutarsi caso per caso in relazione alle specifiche circostanze – possa spiegare ulteriori effetti, incidendo sulla ripetibilità delle somme indebitamente corrisposte e rendendo ingiustificata l’azione di recupero.

L’azione che potrebbe astrattamente avviare il pensionato, che ha percepito in buona fede un trattamento provvisorio, per conseguire il risarcimento del danno “da ritardo” in conseguenza della tardiva determinazione del trattamento definitivo appare, in concreto, di difficile esperimento.

Il riferimento espresso contenuto nell’art. 2 bis all’ingiustizia del danno (contra ius e non iure) e all’elemento soggettivo nella forma della colpa ovvero del dolo, sul modello aquiliano, impone a chi agisce (pensionato) di comprovare concretamente entrambi i presupposti cui è assoggettata l’azione (ex plurimis T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 21 novembre 2011, n. 548): la necessità che il danno si configuri come ingiusto impedirebbe certamente al pensionato di prospettare la domanda di risarcimento commisurando il danno patito a quanto corrisposto da quest’ultimo all’INPDAP (INPS), in ottemperanza di una pronuncia del giudice contabile che lo condanni alla restituzione dell’indebito, in applicazione dell’art. 2033 c.c., non potendo riferirsi ad esso il carattere dell’ingiustizia.

Inoltre, fintanto che non sia intervenuta ed eseguita la sentenza di condanna del Giudice contabile, con l’effettiva restituzione dell’indebito, il pensionato non potrebbe lamentare alcun danno attuale, di cui pretendere il risarcimento; l’azione potrebbe quindi incorrere nelle decadenze previste dall’art. 30 c.p.a., se il pensionato non avesse agito per il risarcimento entro centoventi giorni oltre l’anno dalla scadenza del termine per provvedere (fissato dalla Circolare INPDAP n. 31/1999 in 30 giorni per la conclusione dei procedimenti pensionistici successivi al 29 marzo 1997).

Non può inoltre non farsi rilevare la necessità per il medesimo di agire presso un’altra autorità giurisdizionale, onerandolo di attivare un’ulteriore iniziativa giudiziale avanti a diverso Giudice, in spregio al principio di concentrazione e di effettività della tutela.

Tali considerazioni inducono a ritenere che la “chance” per il pensionato di vedere riconosciuto un danno per il ritardo nella definizione del procedimento di determinazione del trattamento di quiescenza risulti piuttosto scarsa, al punto da vedere del tutto frustrata la pretesa del pensionato.

Peraltro, la sanzione dell’astratta esperibilità dell’azione per il risarcimento del danno da ritardo (con i limiti sopra evidenziati) per le violazioni procedimentali non esclude l’autonoma incidenza del decorso del tempo- su un piano diverso- sul rapporto di obbligazione.

Nella fattispecie dell’indebito pensionistico, il credito vantato dall’ente previdenziale scaturisce infatti da un rapporto obbligatorio avente natura paritetica e non autoritativa (Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, n. 681/2011).

Va quindi valutato come il decorso del tempo nell’adozione del provvedimento definitivo di pensione e del conseguente atto di recupero dell’indebito pensionistico – al di là dei termini e dei profili procedimentali- assuma autonomo significato ad altri fini, nell’ambito del predetto rapporto obbligatorio intercorrente tra pensionato e Istituto previdenziale, ricadente nella piena cognizione del Giudice contabile.

La giurisprudenza contabile prevalente, anche di questa Sezione, ha del resto costantemente riconosciuto che il decorso di consistente lasso di tempo nella liquidazione della pensione definitiva e quindi nell’attivazione della procedura di recupero dell’indebito formatosi oltre all’incontestata buona fede del pensionato – in presenza di accertati e comprovati indici di straordinario e peculiare rilievo, sintomatici di comportamenti abnormi da parte della pubblica amministrazione nella ritardata determinazione del trattamento definitivo di quiescenza, che determinino un affidamento particolarmente solido nel percettore – possono renderne ingiustificata la restituzione e fondare invece la declaratoria di irripetibilità delle somme percepite erroneamente dal pensionato.

Non si ritiene che osti in assoluto all’applicabilità del principio dell’affidamento nelle fattispecie di recupero di indebito pensionistico la natura doverosa dell’azione attivata dall’Istituto previdenziale, ex art. 2033 c.c., per la restituzione di somme indebitamente corrisposte.

L’azione di ripetizione dell’indebito si inserisce infatti nell’ambito di un rapporto consolidato che dà luogo ad un “contatto” qualificato tra Istituto Previdenziale e pensionato, nell’ambito del quale sorgono per le parti obblighi di buona fede e, per quanto qui in particolare rileva, di doveroso rispetto del principio di affidamento.

Allorquando l’ente pubblico, quale parte del rapporto obbligatorio pensionistico, tenga comportamenti non corrispondenti ai canoni sopra enucleati, è riscontrabile una ragione giuridicamente rilevante, all’interno del rapporto pensionistico, che può fondare la declaratoria di irripetibilità di quanto indebitamente corrisposto.

La dichiarazione di irripetibilità non discende infatti da una valutazione di illegittimità in sé degli atti del procedimento amministrativo cui accede l’atto paritetico di recupero ma dalla considerazione del rapporto e delle modalità e tempi con i quali la parte pubblica agisce e procede nell’ambito di questo: qualora queste modalità pregiudichino il predetto principio di affidamento, che connota il consolidato rapporto pensionistico, avverandosi, in particolare, nell’ipotesi in cui il recupero intervenga – in conseguenza del provvedimento definitivo – con un irragionevole ritardo, può rendersi ingiustificata e infondata la richiesta di restituzione.

Il Giudice contabile, nella valutazione circa la fondatezza dell’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. avviata dall’Istituto previdenziale non può attribuire rilievo esclusivo all’elemento dello spostamento patrimoniale che si ritiene ingiustificato ma deve valutare e prendere in esame tutte le componenti del rapporto in essere tra pensionato e Istituto previdenziale, che possono giustificare la mancata restituzione e la diversa misura del quantum del trattamento pensionistico.

La provvisorietà della pensione del resto, avuto riguardo alle finalità ispiratrice delle norme che la prevedono (art. 162 d.p.r. n. 1092/1973), è preordinata a consentire l’erogazione della pensione “rebus sic stantibus” e, quindi, con la possibilità di modifiche conseguenti alla valutazione di elementi di computo inizialmente incerti o sopravvenuti, ma “l’istituto non può, di certo, essere strumentalizzato fino ad essere considerato un rimedio a disposizione dell’amministrazione, senza limiti di tempo e senza dover tener conto degli effetti sulle esigenze di vita del percipiente, per ovviare ad errori compiuti sulla base degli elementi di computo già conosciuti o conoscibili ab initio o per applicare, con effetti retroattivi, eventuali mutamenti interpretativi sopravvenuti in pejus” (Corte dei conti, sez.III App. n. 236/2006).

Al di là del nomen di provvedimento provvisorio, il protrarsi eccessivo del tempo può infatti determinare l’apparenza iuris di definitività del medesimo (in presenza delle condizioni che determinino univocamente nel pensionato tale erronea e incolpevole percezione).

In tal senso ampia giurisprudenza delle Sezioni Centrali di Appello della Corte dei conti ha valorizzato la considerazione che il passaggio del tempo fa diminuire nel pensionato, fino ad annullarla, la percezione del carattere provvisorio del trattamento pensionistico che gli è stato inizialmente liquidato, per cui a tale stato di cose non può che conseguire, secondo il detto orientamento, la necessità di tutelare l’affidamento incolpevole dell’interessato sulla spettanza delle somme percepite in esecuzione di un provvedimento di pensione provvisoria, il che non impedisce che la pubblica amministrazione possa procedere alla ripetizione di eventuali indebiti ai sensi dell’art. 2033 del c.c., ma a condizione che ciò avvenga entro tempi tali da impedire che si determini una concreta lesione nell’affidamento ingenerato nel pensionato circa la definitività del trattamento (Corte dei conti sez. Terza sent. n. 236/2006; Corte dei conti, Sez. Prima sent. n. 99/2006).

Si osserva in proposito come l’affidamento costituisca principio di rilievo comunitario e costituzionale.

La Corte di Giustizia (a partire dalle pronunce 3 maggio 1978, C-112/77; 21 settembre 1983, causa 205-215/82) ha affermato che tutela del legittimo affidamento e certezza nel diritto costituiscono principi generali dell’ordinamento comunitario. Anche in materia di recupero degli aiuti di Stato, la giurisprudenza ha dato rilievo al principio dell’affidamento ingenerato nel beneficiario, nelle ipotesi in cui il mancato recupero entro un termine ragionevole o l’inesattezza delle informazioni assunte sia imputabile alla Commissione europea (Corte di Giustizia, 24 novembre 1987, C. 223/85).

L’art. 1 della l. n. 241/1990, dopo la riforma introdotta dalla l. n. 15/2005 contiene un esplicito riferimento all’osservanza dei principi del diritto comunitario ai fini della regolazione dell’azione amministrativa.

In tale contesto la dottrina ha elaborato una nozione di affidamento che impone al soggetto pubblico che voglia esercitare il proprio potere nei confronti di un privato di tenere in doveroso conto l’interesse alla conservazione di un vantaggio o beneficio conseguito da questo in buona fede, in forza di un esplicito atto della pubblica amministrazione; e a maggior ragione se il vantaggio si sia consolidato decorso un significativo lasso di tempo (elemento oggettivo, soggettivo, cronologico).

La nozione comunitaria di affidamento si differenzia ma è connessa alla nozione nazionale di affidamento, riconducibile al principio di matrice privatistica di buona fede, che trova riscontro costituzionale nell’art. 2 Cost. con riferimento ai “doveri di solidarietà politica, economica e sociale”.

Si aggiunga che nel quadro della disciplina delle pensioni pubbliche e in quello delle pensioni private gestite dall’INPS (già con l’art. 80 del r.d. n. 1924, poi seguito dagli artt. 52 l. 88/1989 e 13 l. 412/1998) “é venuto consolidandosi un principio di settore, secondo il quale -in luogo della generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell’indebito (art. 2033 c.c.)- trova applicazione la diversa regola, propria di tale sottosistema, che esclude viceversa la ripetizione in presenza di una situazione di fatto (variamente articolata) avente come minimo comun denominatore la non addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta” (in tal senso il “principio di settore” viene richiamato da SS.RR. n. 7/QM/2011): ciò in coerenza con le esigenze di bilanciamento tra gli interessi dell’ente erogatore e gli interessi del pensionato che ha percepito somme non dovute e, quindi, con la necessità di evitare una indiscriminata ripetibilità di prestazioni naturaliter già consumate.

Sul punto la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 166/96 ha stabilito che, in relazione all’esigenza di soddisfare il principio ex art. 38 Cost., lo stesso precetto costituzionale “esige un bilanciamento di interessi, tra l’INPS (Istituto interessato a quella fattispecie n.d.r.) – cioè la generalità dei suoi iscritti, gravati dal pagamento indebito – e il pensionato che l’ha percepito, incidente non solo sulle modalità di recupero delle somme non dovute, ma sullo stesso diritto di ripetizione” (si vedano altresì le pronunce della Corte Costituzionale nn. 431 del 1993, 240 del 1994).

In relazione alla portata generale del principio di affidamento, la giurisprudenza anche amministrativa ha chiarito come in una pluralità di situazioni il decorso del tempo possa determinare un consolidamento e rendere inattaccabili situazioni di fatto sorrette dal legittimo affidamento (ex plurimis Cons. St., V, 7 settembre 2009, n. 5245).

Nell’ottica della salvaguardia di posizioni consolidate la normativa di cui alla l. n. 241/1990, nella disciplina degli atti di autotutela, ha individuato uno specifico limite temporale e l’obbligo di comparazione degli interessi come presupposti anche nell’annullamento d’ufficio di cui all’art. 21- nonies. Inoltre, al destinatario della revoca, ai sensi dell’art. 21 quinquies l. n. 241/1990, il legislatore ha riconosciuto uno specifico indennizzo.

In tale contesto si ritiene che il principio dell’affidamento rilevi nel caso in esame.

Nella fattispecie il recupero delle somme indebitamente corrisposte è intervenuto dopo quasi venti anni (essendosi l’indebito formatosi nei periodo 1991 –2011) a fronte di una non contestata buona fede in capo al signor P..

Anche in relazione al principio di cui all’art. 115, comma 1 c.p.c. deve ritenersi quindi provata l’esclusione di qualsiasi consapevolezza da parte del signor P. di avvantaggiarsi indebitamente di somme erogate sine titulo.

In forza dei principi sopra esposti, in accoglimento della domanda proposta in via principale dal ricorrente, deve pertanto dichiararsi l’irripetibilità della somma fatta oggetto dell’atto di recupero INPDAP in data 1.2.2011 prot. 30889/GG (ricevuta in data 28.2.2011), con condanna dell’Istituto previdenziale alla restituzione delle somme trattenute via cautelativa a favore degli eredi.

Sotto un diverso profilo, deve invece escludersi l’applicabilità, nel caso di specie, della disciplina che espressamente esclude il recupero di indebito pensionistico nei confronti degli eredi del preteso debitore, salva l’ipotesi di dolo.

Con le disposizioni contenute all’art. 1, commi 260-265 dell’art. 1 legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Legge finanziaria per il 1997) il legislatore, con riferimento alle somme indebitamente percepite a titolo di prestazioni pensionistiche o quote di prestazioni pensionistiche o trattamenti di famiglia nonché rendite, ha stabilito l’impossibilità di recuperare l’indebito nei confronti di quei soggetti che fossero percettori di un reddito personale imponibile IRPEF per l’anno 1995 di importo pari o inferiore a 16 milioni (comma 260) mentre, nei riguardi dei soggetti percettori di un reddito personale imponibile IRPEF superiore, è stato disposto che si facesse luogo al recupero dell’indebito nei limiti di un quarto delle somme riscosse (disposizione quest’ultima che ha trovato applicazione nei confronti del signor G. P. P.).

Con l’art. 1 comma 263 del citato articolo 1 l. n. 662/1996, come successivamente modificato dall’art. 38 l. n. 448/1998, il legislatore ha stabilito che il recupero non possa estendersi agli eredi del pensionato, salvo che il comportamento del pensionato risulti assistito dal dolo.

Nella successiva disposizione dell’art. 38, comma 10, legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002), il legislatore, nell’ambito di un nuovo intervento di sanatoria degli indebiti pensionistici, ha disposto analogamente che “il recupero dell’indebito pensionistico si estende agli eredi del pensionato solo nel caso in cui si accerti il dolo del pensionato medesimo”.

In proposito, un significativo filone della giurisprudenza contabile ritiene che le previsioni che statuiscono l’irripetibilità dell’indebito pensionistico nei confronti degli eredi, di cui all’art. 1 comma 263 della l. n. 662/1996 (e le disposizioni analoghe successive, tra le quali l’ art. 38 l. n. 448/2001) “costituiscono norma a regime, che opera per tutte le azioni di recupero intraprese – come nel resto- dopo l’entrata in vigore della medesima l. n. 662/1996” (Corte dei conti, III sez. App., 5 ottobre 2011, n. 654; Corte dei conti, I centr. App., n. 451 e n. 391/2009).

In forza di tale orientamento il recupero nei confronti degli eredi di somme indebitamente percepite dal de cuius è escluso in maniera assoluta e incondizionata:“Tale disciplina, pur dovendo a rigore riflettere una strategia finanziaria di breve periodo, deve ad avviso dal Collegio essere riguardata, dopo la conferma della sua forza obbligatoria ad opera dall’art.38, comma 10, della legge finanziaria 2002, come espressione della diffusa e perdurante tendenza legislativa che prevede l’estinguersi delle obbligazioni correlate a fatti lesivi per il pubblico erario col decesso dell’obbligato, sempre che questi non ne abbia volontariamente determinato l’insorgere; sicchè può dirsi che tale normativa tutela la posizione degli eredi del percettore di somme non dovute, nel senso di esonerarli da qualunque obbligo restitutorio, indipendentemente dal periodo della percezione o dalla data del provvedimento di recupero” (Corte dei conti, III app., 3 ottobre 2002, n. 306).

Peraltro tale significativo orientamento non può ritenersi applicabile alla fattispecie in esame in quanto l’Istituto previdenziale ha avviato il recupero nei confronti dell’originario ricorrente Sac. Prof. G. P. P., il quale è deceduto successivamente alla proposizione del ricorso e gli eredi sono succeduti al ricorrente nell’ambito del processo.

In proposito la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che “…In tema di indebito previdenziale, non trova applicazione l’eccezione derogatoria prescritta dall’art. 1, comma 263 della legge n. 662 del 1996 – che esclude la proponibilità di un’azione di recupero nei confronti degli eredi, fatta salva l’ipotesi del dolo del pensionato – nel caso in cui il recupero della prestazione indebita sia stato esercitato nei confronti del pensionato il quale, successivamente, nel corso del giudizio, sia deceduto, con conseguente successione nel processo, ex art. 110 c.p.c., dell’erede.” (Cass., sez. Lav., 27 febbraio 2007, n. 4507).

In relazione alla domanda di prescrizione del credito azionato dall’INPDAP (ora INPS), proposta dal ricorrente in via meramente subordinata – prescrizione comunque maturata per i ratei indebitamente erogati anteriormente al 28.2.2001- si evidenzia come la stessa possa ritenersi assorbita in considerazione dell’integrale accoglimento nel merito del ricorso.

La somma oggetto di restituzione non è suscettibile di rivalutazione né di interessi non avendo il ricorrente (nè gli eredi) avanzato alcuna specifica domanda in proposito ed avendone anzi espressamente esclusa la debenza ( ex plurimis Cass. Civ. 22 novembre 2010, n. 23603).

V. In ultimo, si impone al Giudice di esaminare la domanda dell’INPS (già INPDAP), formulata nella memoria di costituzione nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con la quale si chiede al Giudice di “ritenere e dichiarare il diritto dell’Istituto ad agire in rivalsa nei confronti di detto Ministero, con conseguente condanna di quest’ultimo a manlevare l’Inps (già Inpdap) da una eventuale pronuncia di irripetibilità delle somme indebitamente percepite dal ricorrente e di restituzione di quanto ad oggi trattenuto sul suo trattamento di quiescenza e/o da un’eventuale pronuncia di prescrizione del relativo diritto di ripetizione”.

La formulazione della domanda tende a configurare un rapporto di garanzia tra INPS (già INPDAP) e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca tale da dare luogo alla pretesa di “manleva” per l’ipotesi di condanna alla restituzione.

E’ agevole rilevare che petitum e causa petendi che caratterizzano l’azione dell’INPS (già INPDAP) nei confronti del Ministero non sono in alcun modo ricollegabili al diverso titolo su cui si fonda la domanda proposta dal pensionato con il ricorso.

La domanda appare infatti del tutto autonoma rispetto all’oggetto principale del giudizio e non può trovare accesso avanti a questo Giudice, tenuto conto che vengono in rilievo accertamenti di responsabilità reciproche nel rapporto tra enti, estranee rispetto all’ambito della giurisdizione propria del Giudice contabile, in quanto in alcun modo ricollegabili alla determinazione del quantum pensionistico: come chiarito da questa Sezione si verte in ipotesi “di rapporto obbligatorio distinto da quello pensionistico e sorgente tra soggetti diversi dal pensionato ed in base ad un titolo ed a presupposti differenti” (Corte dei conti, Sez. Giurisdizionale Piemonte, n. 37/2012).

A norma dell’art. 13 r.d. 12 luglio 1934 n. 1214 (t.u. delle leggi sull’ordinamento della Corte dei conti) rientrano infatti, in via esclusiva, nella giurisdizione della Corte dei conti le controversie concernenti la sussistenza del diritto, la misura e la decorrenza della pensione dei pubblici dipendenti, comprese quelle aventi ad oggetto gli elementi integrativi ed accessori nonché quelle che involgono la soluzione di questioni comunque incidenti sul contenuto del diritto e sull’ammontare del trattamento.

La controversia tra lo Stato e l’INPS (già INPDAP) esula quindi dalla giurisdizione di questa Corte dei conti, non configurandosi una controversia sulla misura o sul diritto a pensione.

Questo Giudice non ignora l’orientamento, anche richiamato dalla difesa dell’INPDAP (ora INPS), delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo il quale “la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di pensioni dei pubblici dipendenti (nella specie di Enti locali, prevista dall’art. 60 del r.d.l. n. 680 del 1938) si estende alle controversie relative ad atti di recupero di ratei di pensione erogati in misura superiore a quella dovuta, a causa di errate comunicazioni da parte dell’ente datore di lavoro, proposte, ai sensi dell’art. 8, secondo comma, del d.p.r. n. 538 del 1986, dall’ente erogatore nei confronti dell’ente datore di lavoro dell’ex dipendente (oltre che dal datore di lavoro nei confronti del pensionato in sede di rivalsa), atteso che venendo in discussione il quantum del trattamento pensionistico e, quindi, la sussistenza del diritto alla pensione di un certo ammontare, rileva il contenuto pubblicistico del rapporto dedotto in giudizio” (sentenza n. 23731 del 16.11.2007).

Proprio in considerazione delle argomentazioni svolte dalla Suprema Corte si ritiene peraltro che la giurisdizione sia riconosciuta dall’Organo della nomofilachia in capo al giudice contabile, con riferimento alle domande proposte in forza dell’art. 8, comma 2, del d.p.r. n. 538 del 1986, laddove il legislatore ha previsto sia l’obbligo dell’Ente, responsabile di errate comunicazioni, di rifondere all’ente pagatore le somme indebitamente corrisposte, sia l’azione di rivalsa del predetto nei confronti del proprio dipendente in quanto questioni che, per il Giudice di legittimità, incidono, comunque, sul contenuto del diritto e sull’ammontare del trattamento pensionistico e ascrivibili, pertanto, alla giurisdizione del giudice contabile; disposizione non applicabile nel caso di specie, in cui la domanda dell’INPS (già INPDAP) è rivolta nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Corte dei conti, Sez. Giurisdizionale Veneto, n.724/2011).

L’art. 8, comma 2, del d.P.R. 8 agosto 1986, n. 538 prevede infatti specifica ipotesi di responsabilità del datore di lavoro a fronte di errate comunicazioni agli enti di previdenza, solo nell’ambito delle gestioni delle ex casse pensioni degli istituti di previdenza, non essendo prevista analoga norma in relazione alle pensioni dei dipendenti civili e militari dello Stato, disciplinate dal citato t.u. 1092 del 1973 (Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Piemonte, n. 2/2012).

Con la memoria depositata in data 16 marzo 2012 l’Istituto previdenziale ha dedotto ulteriori argomentazioni a supporto della propria “azione di rivalsa” nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha ritenuto, in particolare, non condivisibile un’interpretazione restrittiva della norma dell’art. 8, comma 2, del d.p.r. n. 538/1986 affermando che “detta ultima norma, sebbene contemplata nell’ambito della disciplina di liquidazione del trattamento di quiescenza degli iscritti alle casse pensioni degli istituti di previdenza (all’epoca quindi delle sole casse CPDE, CPI; CPS e CPUG) deve essere oggi ritenuta applicabile anche alla gestione separata dei trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato o Cassa Stato (CTPS), istituita presso l’Inpdap (ora Inps)”.

La tesi, pur suggestiva, non può trovare accoglimento.

Basti in proposito rilevare che il tenore letterale della disposizione dell’art. 8 citato non autorizza l’interpretazione estensiva suggerita dalla difesa dell’Istituto previdenziale né una simile conclusione può ritenersi rispondere ad un’esegesi di carattere logico-sistematico.

Non emergono elementi tali da far ritenere venute meno le distinzioni che, sul piano normativo, differenziano la gestione dei trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato rispetto ai trattamenti di quiescenza degli iscritti alle ex casse pensioni degli istituti di previdenza trovando le prime la loro specifica disciplina nel d.p.r. n. 1092/1973.

Come puntualmente chiarito da questa Sezione la pretesa dell’INPS (già INPDAP), tesa ad accollare, con intento restitutorio, all’amministrazione di appartenenza del pensionato la responsabilità del conferimento dei maggiori importi, in ipotesi di dichiarata irripetibilità dell’indebito “costituirebbe applicazione analogica del citato art. 8, del D.P.R. cit., in realtà, non consentita in quanto operazione ermeneutica estensiva, stante la specificità delle normative previdenziali del settore statale e di quello degli enti locali”(Corte dei conti, Sez. Giurisdizionale Piemonte, n. 37/2012).

L’estensione, per via analogica, dell’applicabilità della predetta disposizione di cui all’art. 8 d.p.r. n. 538/1986 non può trovare ingresso in questa sede considerato che, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, i diversi sistemi pensionistici hanno una loro specificità e la circostanza che le discipline in essi previste non siano uniformi non giustifica una sovrapponibilità delle diverse normative (sent. 345/1999). Del resto, anche nelle pronunce da ultimo richiamate dall’Istituto previdenziale, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata con specifico riferimento alla disciplina di cui all’art. 8, comma 2 citato, ritenendo che ricadono nella giurisdizione pensionistica della Corte dei Conti le azioni di recupero esperite, a norma della disposizione citata, dal gestore della cassa pensioni nei confronti dell’amministrazione locale datrice di lavoro (Cass. S.U. nn. 2289/2008; 12349/2007, 23731/2007 e 27179/2007).

In adesione all’orientamento costantemente espresso anche da questa Sezione (da ultimo, tra le altre, sentenze n. 37/2012, n. 163/2011, n. 185/2011) va declinata la giurisdizione contabile rispetto alla domanda proposta dall’INPS (già INPDAP) individuando il Giudice ordinario quale titolare della giurisdizione in ordine alla cognizione del predetto rapporto obbligatorio tra enti (in tal senso altresì Corte dei Conti, Sez. Veneto sentt. n. 835, 901/2010 e n. 42/2011).

VI. Sussistono eccezionali motivi per disporre la compensazione delle spese tra le parti, considerate la natura e la complessità della presente controversia, alla luce delle recenti evoluzioni che hanno determinato incertezza del quadro giurisprudenziale e della ritenuta non vincolatività per il Giudice di primo grado della sentenza delle Sezioni Riunite n. 7/QM/2007.

P.Q.M.

la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Piemonte, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, previo rigetto della domanda di integrazione del contraddittorio con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
ACCOGLIE

il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, dichiara l’irripetibilità della somma di Euro 14.891,65 di cui alla nota INPDAP prot. 30889/GG in data 1.2.2011, indebitamente corrisposta al ricorrente, con conseguente condanna dell’INPS (già INPDAP) alla restituzione a favore degli eredi di quanto trattenuto cautelativamente o comunque recuperato, senza interessi e/o rivalutazione.

Dichiara l’inammissibilità della domanda proposta dall’INPS (già INPDAP) nei confronti del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca per difetto di giurisdizione, da riconoscersi a favore del Giudice ordinario.

Spese compensate.

Ai sensi dell’art. 429 c.p.c. fissa in giorni 30 il deposito delle motivazioni.

Così deciso in Torino il 27 marzo 2012.

Il Giudice

(F.to Ilaria Annamaria Chesta)

Depositata in Segreteria il 26 Aprile 2012

Il Direttore della Segreteria

(F.to Antonio Cinque)