Sui limiti del sindacato del GA sulle valutazioni sottese alla dichiarazione di interesse culturale di un bene immobile

NOTA

In linea generale, il GA può sindacare le valutazioni tecnico-discrezionali della P.A., operando una verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo; nel settore dei beni culturali, il giudizio espresso dall’Amministrazione dei beni culturali ai fini dell’imposizione di un vincolo, attesa la sua fisiologica opinabilità, può essere sindacato solo ove esso si collochi comunque al di fuori da quei limiti di naturale elasticità sottesi al concetto giuridico indeterminato che l’Amministrazione è istituzionalmente chiamata ad applicare, risultando, così, in tutto o in parte inattendibile. In particolare, il Giudice amministrativo dovrà guardarsi dal sovrapporre il proprio giudizio a quello espresso dagli organi tecnici, incentrando invece il suo sindacato sulla verifica del corretto esercizio dei poteri affidati all’Amministrazione sotto il profilo della completezza dell’istruttoria, della effettiva sussistenza dei presupposti del provvedere nonché dell’osservanza di criteri di proporzionalità e ragionevolezza.

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N. 418/11 Reg.Sent.

N. 907 Reg.Ric.

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sul ricorso in appello n. 907 del 2010 proposto da

ASSESSORATO REGIONALE DEI BENI CULTURALI E DELL’IDENTITÀ SICILIANA e SOPRINTENDENZA AI BB.CC. AA. DI CATANIA, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, presso i cui uffici in via A. De Gasperi n. 81, sono per legge domiciliati;

c o n t r o

AFEDIL COSTRUZIONI s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Salvatore Cittadino, elettivamente domiciliata in Palermo, via G. Oberdan n. 5, presso lo studio dell’avv. Girolamo Rubino;

e nei confronti

del COMUNE DI CATANIA, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

di PAPPALARDO GIUSEPPA, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Sicilia – Sezione staccata di Catania (sez. I) – n. 1153 del 19 aprile 2010.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Società appellata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 15 marzo 2011 il Consigliere Antonino Anastasi e uditi, altresì, l’avv. dello Stato Tutino per le amministrazioni appellanti e l’avv. S. Cittadino per la società appellata;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

F A T T O

La Società appellata è proprietaria di un terreno edificabile nel quartiere di Cibali del comune di Catania, in relazione al quale fu rilasciata nell’anno 2003 concessione edilizia per la costruzione di un edificio per civile abitazione composto di numerose unità immobiliari.

Avendo la società iniziato i lavori di sbancamento, il Genio Civile, il Centro Speleologico Etneo e rappresentanti della Soprintendenza – attivati da esposti presentati da abitanti del luogo – hanno effettuato dei sopralluoghi, dai quali è emersa l’esistenza in quel sito di un pozzo artificiale profondo circa 7 metri, a monte del quale si sviluppa una galleria per circa 50 metri.

Il 14.9.2004 il Genio Civile ha trasmesso una relazione speleologica al Comune di Catania, chiedendo di verificare la compatibilità dell’edificio da realizzare e diffidando la ricorrente dal modificare o demolire la galleria in oggetto.

Con provvedimento prot. 1908/2004, la Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Catania ha avviato, ai sensi degli artt. 2 e 45 del D.L.vo 42/2004, un procedimento di tutela del pozzo, del condotto e delle camere di captazione ritenute appartenenti all’antico acquedotto di Cibali (già Cifali).

Con lo stesso provvedimento sono state imposte alla Ditta numerose prescrizioni limitative, onde prevenire l’alterazione di beni ritenuti di particolare interesse etno-antropologico.

Conseguentemente, con ordinanza n. 7/2004, il Comune di Catania, prendendo atto della nota della Soprintendenza, ha disposto l’immediata sospensione dei lavori.

I provvedimenti ora richiamati sono stati impugnati avanti al T.A.R. Catania dalla società, la quale ne ha chiesto l’annullamento deducendo censure di eccesso di potere, di difetto di motivazione e di istruttoria e richiedendo il risarcimento dei danni ingiustamente patiti.

Successivamente con decreto dirigenziale n. 8844/2005 l’antico “condotto sotterraneo con annesse camere di captazione e pozzo facente parte dell’antico acquedotto di Cibali”, è stato dichiarato di interesse etno-antropologico e storico particolarmente importante in quanto individuato fra i beni elencati all’art. 10, comma 3, lett. a) del Codice dei beni culturali e all’art. 2 della legge regionale n. 80 del 1977.

Ai fini della salvaguardia dell’integrità del pozzo, del condotto e delle camere di captazione, sui terreni adiacenti e soprastanti i beni tutelati è stata imposta una fascia di rispetto di metri 6 in senso sia verticale che orizzontale.

La proprietà ha impugnato anche questo decreto con motivi aggiunti, reiterando poi la richiesta di risarcimento del danno.

Espletate una verificazione ed una consulenza tecnica l’adito Tribunale con la sentenza in epigrafe indicata ha accolto i motivi aggiunti e ha annullato il vincolo, ritenendolo viziato per difetto di istruttoria e di motivazione nonchè perchè apposto a beni non concretamente fruibili dalla collettività ed insistenti in una area fortemente già antropizzata.

Il Tribunale ha invece respinto la domanda risarcitoria, attesa la sua genericità.

La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello oggi all’esame dalla Amministrazione la quale ne ha chiesto l’integrale riforma, previa sospensione dell’esecutività, deducendo a tal fine un unico ed articolato motivo d’appello.

Si è costituita in resistenza la AFEDIL s.a.s. spiegando controricorso ed allegando una perizia di parte.

La società ha poi presentato memoria insistendo nelle già rappresentate conclusioni.

Con ordinanza n. 965 del 2010 questo Consiglio ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.

Alla pubblica udienza del 15 marzo 2011 l’appello è stato trattenuto in decisione.

D I R I T T O

L’appello è fondato e va pertanto accolto.

Con il motivo che conviene prioritariamente esaminare l’Am-ministrazione evidenzia che la sentenza impugnata – pur movendo da condivisibili premesse teoriche – finisce in concreto per travalicare i confini propri della giurisdizione di legittimità.

Secondo l’appellante la sentenza stessa, attraverso una analitica verifica della congruenza degli elementi valorizzati nel decreto di vincolo, perviene infatti a sovrapporre un proprio giudizio di merito alla valutazione tecnica espressa dalla Soprintendenza e cioè dall’organo cui la legge demanda istituzionalmente l’individuazione dei beni meritevoli di tutela perchè qualificabili come di interesse etno-antropolo-gico particolarmente importante.

Peraltro, osserva l’Amministrazione, anche in concreto i parametri enucleati dal T.A.R. ai fini del riscontro in ordine al richiamato interesse culturale dei beni in esame risultano inappropriati se non del tutto fallaci.

Il mezzo è fondato.

Come è noto, per lungo tempo la giurisprudenza ha ritenuto che la c.d. discrezionalità tecnica – e cioè l’attività che ricorre quando l’Amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve applicare una norma tecnica alla quale una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta – avesse contenuto analogo alla discrezionalità pura, con la conseguenza che le valutazioni tecniche, confluendo nel merito amministrativo, venivano ritenute intrinsecamente insindacabili in sede di legittimità, salvo la ricorrenza di ipotesi liminari di abnormità immediatamente percepibili.

Più di recente è però prevalsa una diversa impostazione, alla stregua della quale il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici dell’Amministrazione può svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’Autorità amministrativa, bensì in base alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo (cfr. IV Sez. 9.4.1999 n. 601).

Tanto premesso in generale, è da tenere presente che nel peculiare settore dei beni culturali l’accertamento volto a verificare la sussistenza del relativo interesse non può che essere compiuto dall’Ammi-nistrazione applicando regole tecnico-specialistiche ontologicamente caratterizzate da una fisiologica ed ineliminabile opinabilità.

Ne consegue che queste valutazioni possono essere censurate in sede giurisdizionale soltanto quando risulti la loro palese inattendibilità sotto il profilo tecnico.

In altri termini, il giudizio espresso dall’Amministrazione dei beni culturali ai fini dell’imposizione di un vincolo, attesa la sua fisiologica opinabilità, può essere sindacato solo ove esso si collochi comunque al di fuori da quei limiti di naturale elasticità sottesi al concetto giuridico indeterminato che l’Amministrazione è istituzionalmente chiamata ad applicare, risultando, così, in tutto o in parte inattendibile (cfr. VI Sez. n. 5455 del 2009).

Operativamente, al fine di non travalicare i confini propri della giurisdizione di legittimità, il Giudice amministrativo dovrà guardarsi dal sovrapporre il proprio giudizio a quello espresso dagli organi tecnici, incentrando invece il suo sindacato sulla verifica del corretto esercizio dei poteri affidati all’Amministrazione sotto il profilo della completezza dell’istruttoria, della effettiva sussistenza dei presupposti del provvedere nonchè dell’osservanza di criteri di proporzionalità e ragionevolezza (cfr. VI Sez. n. 4322 del 2007).

Applicando questi criteri ermeneutici al caso in esame deve in primo luogo riconoscersi che – come dedotto dall’Amministrazione – la sentenza impugnata oltrepassa il c.d. limite esterno della giurisdizione di legittimità laddove esprime veri e propri giudizi di merito sul valore del bene affermando che la sua salvaguardia non potrebbe recare una testimonianza “maggiore di quella che già deriva dalle risultanze archivistiche e documentali (che quindi non sarebbero in nulla arricchite dal bene così come oggi esistente)”.

Ciò premesso, osserva invece il Collegio che il provvedimento impugnato risulta per un verso adottato sulla base di una istruttoria congrua e per l’altro supportato da una motivazione che dà preciso conto dei motivi in base ai quali l’Amministrazione ha qualificato quella antica struttura idrica come testimonianza viva di una tecnica di captazione delle acque sotterranee utilizzata nel passato.

Si tratta in sostanza, secondo il provvedimento impugnato in primo grado, di una struttura idonea a testimoniare in quale forma le popolazioni stanziate in quello che è ora l’abitato di Catania abbiano attivato procedure di ricerca e captazione di un bene essenziale alla vita e all’attività dell’uomo, nonché alla trasformazione di vaste aree incolte in compendi produttivi.

Quelle ora sintetizzate sono, come è evidente, considerazioni che scolpiscono il valore etno-antropologico, storico ed educativo dei resti dell’antico acquedotto in modo che non può essere considerato – per le ragioni metodologiche sopra enunciate – non attendibile solo perché non collimante con l’opposto soggettivo giudizio del consulente.

In effetti, facendo proprio tale giudizio la sentenza impugnata perviene addirittura ad enucleare un catalogo analitico dei presupposti in base ai quali un bene etno-antropologico potrebbe essere ritenuto meritevole di interesse: così incorrendo, però, nell’errore metodologico prima richiamato, che è quello di sovrapporre nel merito una propria griglia di riferimento culturale a quella valorizzata dall’Ammi-nistrazione.

Inoltre, come rilevato con particolare efficacia dalla Difesa erariale, anche in concreto i parametri enucleati dalla sentenza impugnata non sembrano costituire adeguato svolgimento delle previsioni generali contenute nella legislazione di settore.

In tal senso, ad esempio, non sembra possibile subordinare la dichiarazione di interesse culturale alla “integrità formale” del bene tutelato, avendo da tempo la giurisprudenza evidenziato – in particolare nel settore archeologico – la necessità di salvaguardare e di consegnare alla conoscenza delle generazioni future anche testimonianze e reperti in parte rovinati e danneggiati o originariamente facenti parte di complessi più ampi, parzialmente smembrati per effetto di eventi naturali o per l’intervento umano.

In tale prospettiva, la circostanza che – come sostiene l’appella-ta – l’urbanizzazione pressochè incontrollata del sito abbia già compromesso l’integrità originaria dell’antico acquedotto non ha sicuramente rilievo: da un lato infatti come osserva l’Avvocatura la relazione estesa a seguito di ispezione dai Vigili del fuoco comprova la perdurante “leggibilità” della struttura; dall’altro, per costante giurisprudenza, l’avvenuta edificazione di un’area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché l’imposi-zione del vincolo costituisce il presupposto per l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso (cfr. VI Sez. n. 3556 del 2010).

Parimenti, l’imposizione del vincolo non richiede una ponderazione degli interessi privati con gli interessi pubblici connessi con l’introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto al privato sia stato contenuto nel minimo possibile, sia perché la dichiarazione di particolare interesse non è un vincolo a carattere espropriativo, costituendo i beni di rilievo etno-antropologico una categoria originariamente di interesse pubblico, sia perché comunque la disciplina costituzionale del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9 Cost.) erige la sua salvaguardia a valore primario del vigente ordinamento.

Tornando alla griglia dei criteri enunciata dalla sentenza impugnata, ancora non appropriato risulta – come deduce l’Avvocatura – il requisito della fruibilità, intesa in assoluto come concreta e attuale possibilità per la collettività di godere del bene o come programma con cui l’Amministrazione (in rigida contestualità con l’apposizione del vincolo) individua le modalità per consentire o programmare tale godimento pubblico.

Al riguardo è sufficiente osservare che anche sul piano logico la fruizione costituisce finalità o evento successivo e distinto rispetto alla qualificazione e conseguente tutela del bene, le quali si correlano – nel disegno codicistico – esclusivamente alle caratteristiche intrinseche della cosa stessa, che ne impongono la conservazione.

Come precisa l’art. 2 comma 4 del Codice (peraltro in relazione alla sola proprietà pubblica) la fruizione della collettività, sempre che non vi ostino ragioni di tutela, costituisce infatti la “destinazione” funzionale e non la caratteristica strutturale dei beni già riconosciuti come appartenenti al patrimonio culturale.

A titolo suggestivo basta del resto scorrere l’elenco dei dieci criteri in base ai quali viene dall’anno 2005 aggiornata la Lista dei patrimoni dell’umanità (Convenzione UNESCO 23.11.1972) per percepire che la fruibilità del bene o del sito non costituisce affatto requisito per la sua inclusione nel suddetto elenco.

D’altra parte, come rileva l’Avvocatura, esistono beni di sicuro interesse culturale che non possono essere “ partecipati” direttamente dalla collettività per la loro natura (come i siti minerari: art. 10 comma 4 lettera i) del Codice) o per la loro collocazione (come i beni sommersi o subacquei di cui alla legge n. 157 del 2009 di ratifica della relativa Convenzione UNESCO) o appunto per esigenze insormontabili di tutela (come le Grotte di Lascaux notoriamente interdette dalle Autorità francesi a partire dall’anno 2008 perfino agli studiosi al fine di prevenire danni da surriscaldamento ai graffiti paleolitici).

Deve quindi concludersi nel senso che la fruizione del bene culturale da parte della collettività, nel senso predicato dalla sentenza impugnata, costituisce uno degli auspicabili e possibili fini della sua conservazione ma assolutamente non un requisito per l’imposizione del relativo vincolo.

Diversamente ragionando, per concludere sul punto, all’atto dell’apposizione del vincolo archeologico su un sito l’Amministrazio-ne dovrebbe allegare un congruo programma di scavi e ricerche nonchè di conseguente valorizzazione dei reperti, il che la giurisprudenza non sembra aver mai richiesto.

A quanto osservato va infine doverosamente aggiunto, su un piano più generale, che la fruizione del bene può in realtà estrinsecarsi non soltanto attraverso un contatto diretto e immediato tra esso e la collettività interessata, come sembra pretendere la sentenza impugnata, ma anche in modi indiretti (ad es. disponibilità per ispezioni degli esperti, conseguenti studi scientifici, rappresentazioni a fini didattici etc.) parimenti utili a valorizzare il portato testimoniale della cosa o del compendio tutelato.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, l’appello va quindi accolto, con integrale riforma della sentenza impugnata e rigetto del ricorso originario e dei motivi aggiunti.

Ogni altro motivo od eccezione di rito e di merito può essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente sentenza.

Le spese del giudizio possono essere compensate in ragione delle peculiarità della vicenda amministrativa.

P. Q. M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello in epigrafe, riforma integralmente la sentenza impugnata e respinge il ricorso originario e i motivi aggiunti.

Compensa tra le parti le spese e gli onorari del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo il 15 marzo 2011, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, in camera di consiglio, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Antonino Anastasi, estensore, Guido Salemi, Pietro Ciani, Giuseppe Mineo, componenti.

F.to Riccardo Virgilio, Presidente

F.to Antonino Anastasi, Estensore

Depositata in Segreteria

il 10 giugno 2011