Appalti criminosi e responsabilità erariale

NOTA

La sentenza della Sezione d’appello in rassegna enuncia alcuni importanti principi in merito alla responsabilità erariale e alla relativa cognizione in sede giudiziale.

La sentenza di prime cure aveva condannato alcuni amministratori e funzionari del Comune di Sarnano (MC) per gravi illeciti – sanzionati anche dal Giudice penale – relativi alla mala gestio di appalti di pertinenza dell’ente locale.

Sull’appello proposto contro le statuizioni risarcitorie contenute nella sentenza di primo grado, la Sezione della Corte dei conti è chiamata a esaminare alcune interessanti questioni sostanziali e processuali e, in particolare,:

sulle conseguenze della mancata riassunzione del giudizio d’appello nei cofronti degli eredi del condannato deceduto nelle more del giudizio: la Cortre statuisce che la mancata riassunzione del giudizio nei confronti degli eredi nel termine previsto dall’art. 305 c.p.c., determina non solo l’estinzione del giudizio (di appello) ma, in applicazione dell’art. 1, L. n. 20/94, e diversamente da quanto in genere previsto dall’art. 310, commi 1 e 2, c.p.c., l’estinzione della stessa azione di responsabilità (in buona sostanza, la condanna subita dal pubblico dipendente deceduto nelle more del giudizio diviene tamquam non esset);

sul contenuto della richiesta di definizione agevolata dell’appello ex art. 1, commi 231-233, L. n. 266/05: la Corte dichiara inammissibile l’istanza di definizione agevolata (e, nella specie, la sua riproposizione a fronte del decreto di reiezione della Corte adita), che era stata subordinata ad un esito sfavorevoledel giudizio stesso;

sull’ammissibilità di prove raccolte nel giudizio penale: la Corte, premesso che il giudice erariale può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto ed in virtù del principio dell’unità della giurisdizione, anche prove raccolte in un diverso giudizio, svolto non solo fra le stesse ma anche tra parti diverse, osserva che è rituale l’ammissione della perizia disposta dal G.I.P. in sede penale, colà acquisita con le modalità dell’incidente probatorio e nel contraddittorio delle parti, sia in primo che in secondo grado;

sulla valutazione della C.T.U.: la Corte osserva che il giudice può sempre valutare autonomamente secondo il suo prudente apprezzamento le risultanze di una consulenza tecnica che, di per sé, è priva di autonomo valore probatorio e pertanto non è nemmeno vincolato alla scelta tra il “prendere” e il “lasciare”; il Giudice, sottolinea la Corte, può quindi discostarsi dalle risultanze di una C.T.U. anche solo in parte, motivando sulle scelte fatte;

sulla portata del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: la Corte ritiene che il principio in questione non impedisce al giudice di rendere la pronuncia richiesta non solo applicando una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante, ma anche delineando una ricostruzione dei fatti dedotti in giudizio autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti (nella specie, la Corte ha escluso alcun indebito mutamento del petitutm e della causa petendi dell’azione erariale, ma solo un’attenuazione della responsabilità del convenuto, nel fatto che il Giudice di primo grado abbia configurato, sulla base degli atti di causa, una colpa grave anziché un dolo);

sulla sussistenza della colpa grave dell’amministratore (i.e: assessore con delega ai lavori pubblici) per gli illeciti erariali compiuti dall’ufficio tecnico: la Corte osserva che “La colpa grave in vigilando addebitata al sig. P. attiene poi all’attuazione di una delega ai lavori pubblici il cui affidamento avrà certamente avuto motivazioni di natura politica, ma la cui attuazione (rectius: nella fattispecie, mancata attuazione) comporta precise conseguenze di natura giuridica,configurandosi in particolare come concausa del verificarsi del danno subito dal Comune di Sarnano nella vicenda in esame. Inoltre, si tratta di una colpa in vigilando che rende il sig. P. corresponsabile dei danni subiti dall’amministrazione comunale per tutte le opere pubbliche in questione, non solo per quelle oggetto di deliberazioni approvate con la partecipazione dell’assessore ai lavori pubblici o per le quali l’assessore ha ammesso di essere venuto a conoscenza di illeciti.“;

sulla misura del danno erariale imputabile putazione all’assessore con delega ai lavori pubblici: la Corte ritiene corretta l’imputazionein misura pari al 15 % del danno erariale complessivo, alla luce della colpa grave accertata a carico dell’amministratore;

difetto di motivazione circa il mancato esercizio del potere riduttivo da parte del Giudice di primo grado: la Corte esclude qualsiasi violazione della norma che conferisce alla Corte il potere in questione, sul rilievo che la necessità della motivazione va affermata solo allorché si faccia uso in positivo di tale potere, mentre il diniego dell’applicazione della norma di favore, trattandosi di un potere discrezionale, ben può fondarsi su una motivazione che faccia scaturire dalla gravità della colpa l’esclusione del beneficio.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SECONDA SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO

composta dai magistrati

dott. Gabriele De Sanctis Presidente

dott. Stefano Imperiali Consigliere relatore

dott. Mario Pischedda Consigliere

dott.ssa Angela Silveri Consigliere

dott. Luigi Cirillo Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui seguenti appelli avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per le Marche n. 588 del 7.9.2005:

▪ n. 24603 del registro di segreteria, proposto dal sig. E.P.rappresentato e difeso dall’avv. Andrea Calzolaio;

▪ n. 24714 del registro di segreteria, proposto dal sig. R.P.rappresentato e difeso dall’avv. Paolo Rossi;

▪ n. 24725 del registro di segreteria, proposto dal sig. D.P.rappresentato e difeso dagli avvocati Giacomo Maria Perri e Alberto Cucchieri.

Visti gli atti del giudizio;

Uditi all’udienza del 6.10.2011 il consigliere relatore, l’avv. Giacomo Maria Perri, anche per delega dell’avv. Andrea Calzolaio, e il vice procuratore generale dott. Antonio Ciaramella;

Ritenuto in

FATTO

1. La vicenda in esame trae origine dal rinvio a giudizio davanti al Tribunale penale di Macerata del sindaco del Comune di Sarnano (MC) E.P. del vice sindaco e assessore ai lavori pubblici D.P.del segretario comunale E.G.del responsabile dell’ufficio tecnico R.P.dell’addetto all’ufficio tecnico A.T.del dirigente dell’ufficio di ragioneria G.B.Gli imputati erano accusati, in concorso con altri, di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzata alla commissione dei delitti di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), falso ideologico (art. 479 c.p.) e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.).

Sulla base di indagini effettuate dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Macerata, veniva contestato un gran numero di illeciti concernenti opere pubbliche realizzate nel Comune di Sarnano nel periodo 1986-1993. Era infatti risultata “la formazione di una serie interminabile di atti pubblici ideologicamente falsi (stati di avanzamento, certificati di collaudo o di regolare esecuzione delle opere, mandati di pagamento, perizie tecniche, relative ad opere in tutto o in parte inesistenti) e delibere amministrative ideologicamente false quanto ai presupposti di fatto e illegittime, con cui venivano approvati – con il concorso meramente materiale degli altri Amministratori – i detti atti falsi, venivano deliberate richieste di finanziamento o esecuzione di opere che, in realtà, non dovevano essere realizzate o dovevano esserlo solo in parte, con stravolgimento della contabilità ufficiale del Comune e dei bilanci annuali, contabilità sostituita da documentazione costituita da appunti generici ed incompleti sui rapporti dare e avere con le imprese appaltatrici”.

Vi era stata inoltre una generalizzata violazione delle norme sulla progettazione, sull’affidamento e sull’esecuzione di opere pubbliche: le progettazioni erano risultate carenti e spesso effettuate al solo scopo di impegnare fondi per compensare altri lavori; alle licitazioni private erano state per lo più invitate poche ditte, il cui elenco era stato pubblicato prima della formulazione delle offerte; le trattative private e gli affidamenti dei lavori in economia erano avvenuti in difformità dalle disposizioni vigenti; non erano state rispettate le disposizioni della legge n. 57 del 1962 sull’iscrizione degli appaltatori nell’Albo Nazionale dei Costruttori; era stata omessa la compilazione di atti contabili; erano state violate le disposizioni sulla variazione delle opere; vi era stato un generalizzato ricorso alla certificazione di regolare esecuzione da parte del direttore di lavori al posto del collaudo previsto dall’art. 326 della legge n. 2248 del 1865.

Il giudizio penale si concluse per i sigg. P.e P.in secondo grado con determinazione concordata della pena in applicazione dell’art. 599 c.p.p., per gli altri imputati in primo grado con applicazione della pena su richiesta delle parti come previsto dall’art. 444 c.p.p.

2. Con atto di citazione del 9.6.1998, la Procura regionale di questa Corte per le Marche chiamò in giudizio gli imputati nel procedimento penale, chiedendo loro il risarcimento a favore del Comune di Sarnano di un danno complessivo di lire 1.178.129.954 oltre a rivalutazione monetaria, interessi legali e rimborso delle spese di giudizio relativo alle numerose opere per le quali risultavano contabilizzati e pagati lavori mai effettuati oppure eseguiti in misura inferiore a quella indicata.

Con sentenza parziale n. 494 del 21.6.2001, la Sezione territoriale respinse tutte le eccezioni pregiudiziali e preliminari proposte dai convenuti. Gli appelli proposti avverso la sentenza furono decisi da questa Sezione con sentenze n. 326 del 25.11.2003 e n. 278 del 1°.9.2004: con la prima sentenza, l’azione di responsabilità fu dichiarata ammissibile e non prescritta; con la seconda, fu dichiarata la cessazione della materia del contendere in ordine a un motivo di appello e furono rinviati gli atti al giudice di primo grado per la prosecuzione del giudizio.

Con sentenza n. 588 del 7.9.2005, la Sezione marchigiana ha infine condannato i sigg. E.P.e R.P.al pagamento di € 108.460 ognuno; i sigg. D.P.ed E.G.al pagamento di € 54.228 ognuno; il sig. G.B.al pagamento di € 18.076. Ha invece respinto la domanda attorea nei confronti del sig. A.T.La responsabilità dei sigg. P.e P. è stata inoltre qualificata di “carattere doloso” e pertanto “solidale”, in applicazione dell’art. 1, comma 1 quinquies, della legge n. 20 del 1994.

3. La sentenza della Sezione territoriale n. 588 del 2005 è stata impugnata con distinti atti di appello dai convenuti P.,.P.,P., per i seguenti motivi:

▪ Erroneo criterio di determinazione del danno e ultrapetizione.

L’atto di citazione aveva individuato il danno nella differenza tra quanto pagato per le opere e l’utilitas conseguita. La sentenza impugnata ha invece affermato che l’intera somma pagata costituisce danno, dal quale va poi scomputata l’utilità conseguita, determinata peraltro in via equitativa senza che l’attore abbia in realtà fornito la prova del danno subito dal Comune.

Errata reiezione della richiesta di una nuova consulenza tecnica ed errata valutazione dei risultati della consulenza di parte, con indebito ricorso a una valutazione equitativa dell’utilitas.

La sentenza impugnata ha considerato le due perizie acquisite nel corso dell’istruttoria penale: una disposta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale penale di Macerata e redatta il 2.5.1997 dagli ingg. xx ed una di parte redatta il 2.6.1998 dagli ingg. xx. La prima perizia ravvisava un’utilitas inferiore ai pagamenti effettuati, la seconda affermava invece che il valore delle opere equivaleva ai pagamenti.

Orbene, poiché ambedue le perizie ammettevano l’esistenza di un’utilitas, la Sezione non avrebbe potuto decidere allo stato degli atti, valorizzando la perizia del G.I.P. ma ritenendola nel contempo inattendibile sul quantum del danno: doveva invece rigettare la domanda di condanna ritenendo non provata l’inidoneità dell’utilitas a coprire per intero i pagamenti effettuati. Quanto meno, la Sezione doveva ammettere una nuova perizia, poiché i prezzi unitari considerati nella consulenza disposta dal G.I.P. erano “assurdi” e “artificiosi” e comportavano una rilevante sottoestimazione dei costi. La conseguente valutazione equitativa, peraltro richiesta dalla Procura Regionale solo in udienza, risulta pertanto ingiustificata.

Omessa detrazione dal danno degli interessi per ritardi nei pagamenti.

Il computo come danno degli interessi corrisposti alle imprese risulta ingiustificato, poiché il loro pagamento deriva automaticamente dal ritardo nei versamenti alle scadenze previste.

Eccessiva quota di responsabilità attribuita ai sigg. P.P. Mancanza di dolo nella loro condotta.

Le quote del 30% del danno attribuite al sindaco e al capo dell’ufficio tecnico risultano eccessive, in ragione dell’ampio coinvolgimento nella vicenda di numerosi uffici e organi comunali. Inoltre, vanno esclusi il dolo e la conseguente solidarietà passiva, poiché in realtà è possibile volere “ad altri fini” delle “irregolarità” perseguendo e realizzando “non il danno ma il vantaggio dell’ente”.

Errata affermazione della responsabilità del sig. P.in assenza di elementi di prova e comunque di colpa grave. Ultrapetizione.

Il vice sindaco assessore ai lavori pubblici sig. Domenico P.che aveva approvato solo alcune deliberazioni sulla base di atti predisposti dall’ufficio tecnico competente, e che aveva ammesso di essere venuto a conoscenza di irregolarità solo per tre opere, era in realtà ignaro del grave contesto di irregolarità, caratterizzato dall’azione dominante e carismatica del sindaco P.E’ stato pertanto condannato unicamente poiché “non poteva non sapere”. Inoltre, gli è stata attribuita una “colpa grave in vigilando” non contestata nell’atto di citazione. Infine, la sua limitata partecipazione alla vicenda in esame non poteva condurre a un addebito del 15% del danno, la stessa quota attribuita al segretario comunale G. che aveva invece partecipato al complesso dell’attività amministrativa.

Mancata applicazione del potere riduttivo.

Oltre al rigetto della domanda attorea, gli appellanti hanno chiesto, in via subordinata, la riduzione degli addebiti, in ragione della propria personale correttezza, dell’assenza di finalità di lucro nella vicenda in esame e delle modeste condizioni economiche.

4. Con conclusioni dell’8.3.2006, la Procura Generale ha diffusamente richiamato “l’argomentata motivazione” della sentenza impugnata, ritenuta “pienamente condivisibile”. In particolare ha affermato:

▪ Dai procedimenti penali era risultato, senza sostanziali contestazioni da parte degli odierni appellanti, “un sistema complessivo nel quale l’erogazione delle spese prescindeva sostanzialmente dai procedimenti contabili amministrativi tanto da essere gestita in concreto da contabilità informali redatte dalle stesse imprese”.

▪ La quantificazione del danno subito dal Comune di Sarnano è stata effettuata “secondo lo stesso criterio dell’atto di citazione (differenza fra somme erogate e valore delle opere)”.

▪ Non è accettabile la prospettata “equiparazione fra consulenza di parte e perizia di ufficio”, acquisita in sede di incidente probatorio e quindi con tutte le necessarie garanzie. Comunque, la sentenza impugnata ha debitamente motivato con riferimento alla “maggiore attendibilità” della consulenza tecnica d’ufficio, che ha seguito il “criterio dei prezzi di mercato”, anziché quello dei “prezzi stabiliti in contratto” proposto dagli appellanti.

▪ Le sentenze penali intervenute nella vicenda, emesse in applicazione dell’art. 599 c.p.p. o dell’art. 444 c.p.p., avrebbero consentito di quantificare il danno sulla base della sola perizia del G.I.P. La Sezione ha invece formulato una “prudente valutazione in termini equitativi, risoltasi in una sostanziale diminuzione dell’importo del danno imputato” e quindi in una “valutazione di maggior favore nei confronti dei convenuti”.

▪ “Gli interessi legali sui pagamenti” costituiscono “oggettivamente un danno erariale” che non può considerarsi estraneo alle “irregolarità complessive nella programmazione, affidamento e gestione degli appalti”.

▪ Le varie quote di danno sono state addebitate sulla base delle responsabilità accertate nei procedimenti penali. In particolare, non risulta credibile che il vice sindaco e assessore ai lavori pubblici sig. P.“soggetto posto ai vertici dell’amministrazione locale”, non si sia informato su quanto stava avvenendo. E comunque, qualora ciò sia avvenuto, dovrebbe allora “ipotizzarsi a suo carico una responsabilità per culpa in vigilando”.

▪ Il mancato esercizio del potere di riduzione degli addebiti non necessita di una specifica motivazione, “le quote di danno sono già state dichiarate comprensive della rivalutazione monetaria”, un’ulteriore riduzione è esclusa dalla gravità dei fatti.

In definitiva, la Procura Generale ha chiesto il rigetto dei gravami, con condanna degli appellanti al pagamento anche delle spese del secondo grado di giudizio.

5. Con nota dell’8.4.2009, notificata alle altre parti il 9-10.4.2009, l’avv. Andrea Calzolaio ha comunicato il decesso del sig. E.P. affermando che “non sussiste e non è stato mai contestato alcun illecito arricchimento del convenuto” e chiedendo pertanto una dichiarazione di estinzione del giudizio nei confronti dello stesso P..

6. Con decreto n. 28 del 19.4.2011, è stata respinta una richiesta di definizione dell’appello presentata dal sig. D. P in applicazione dell’art. 1, commi 231-233, della legge n. 266 del 2005.

7. Con memoria del 15.9.2011, la difesa del sig. D.P. ha affermato che la sentenza impugnata ha riconosciuto la partecipazione dell’appellante “alle decisioni riguardanti alcune opere soltanto”; il sig. P. aveva “approvato insieme agli altri Assessori, in giunte sempre presiedute dal Sindaco, atti a contenuto specialistico, già predisposti dall’Ufficio tecnico, che solo successivamente aveva appreso essere illegittimi nei presupposti e nelle contabilità contenute”; “il Perfetti era Vice Sindaco solo di nome, né mai lo stesso ha fatto uso della delega ai lavori pubblici”; la sua condotta va considerata “meramente omissiva del controllo politico, laddove il controllo tecnico degli atti è demandato ad altri soggetti ed in particolare al Segretario Comunale il quale, insieme con il Responsabile di Ragioneria certifica, in calce a ciascun atto deliberativo, la regolarità amministrativa e contabile dello stesso”; “la vigilanza sugli atti e sull’iter amministrativo relativo ad un Comune (tanto più piccolo come Sarnano – 3.000 abitanti) non appartiene all’organo politico, ma ad altre figure istituzionali preposte a tale compito”; la quota di danno addebitata all’appellante “non tiene conto della partecipazione del P. alle decisioni riguardanti alcune opere soltanto”. Ha chiesto pertanto l’accoglimento delle richieste dell’appello e altresì, “in via subordinata ove del caso la revoca del diniego alla definizione agevolata del procedimento per la quale sussistevano, a parere del deducente, tutti i requisiti prescritti dalla norma”.

8. All’udienza del 6.10.2011, l’avv. Giacomo Maria Perri ha in primo luogo chiesto che sia dichiarata l’estinzione del giudizio nei confronti del sig. P Ha poi ribadito che il vice sindaco assessore P.non aveva mai presieduto le adunanze di giunta e non aveva mai utilizzato la delega ai lavori pubblici ricevuta; aveva approvato in buona fede solo alcune delle deliberazioni oggetto della vicenda e solo per tre opere pubbliche era venuto a conoscenza di irregolarità; la sua condotta aveva avuto un’incidenza causale solo per una parte del danno; la sua responsabilità era di natura politica, non amministrativa, in nessun modo equiparabile a quella del P. del P.Ha chiesto pertanto l’acquisizione di una nuova perizia e una più esatta quantificazione in via equitativa dell’addebito oppure, in via subordinata, un ampio esercizio del potere riduttivo o anche la revoca del decreto che ha negato all’appellante la definizione del giudizio in applicazione dell’art. 1, commi 231-233, della legge n. 266 del 2005.

Il vice procuratore generale dott. Antonio Ciaramella ha precisato che la Procura Generale non ha ravvisato l’esistenza delle condizioni per proseguire il giudizio di responsabilità nei confronti degli eredi di E.P.in applicazione dell’art. 1 della legge n. 20 del 1994; ha richiamato le considerazioni delle dettagliate conclusioni formulate dalla Procura l’8.3.2006; ha sostenuto che la revoca del decreto del 19.4.2011, che comunque dovrebbe essere chiesta in via principale e non meramente subordinata, non appare giustificata da fatti nuovi; ha precisato che al sig. P. sono state contestate violazioni di natura amministrativa e non politica, verificatesi in un lungo periodo in cui non sono stati esercitati controlli. Ha chiesto infine che l’“equilibrata” decisione della Sezione di primo grado sia confermata nei confronti sia del sig. P.. che del sig. P..

Considerato in

DIRITTO

1. Le impugnazioni in epigrafe, “proposte separatamente avverso la stessa sentenza”, vanno riunite in applicazione dell’art. 335 c.p.c.

2. L’art. 1 della legge n. 20 del 1994 stabilisce che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale” e “il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi”.

Nella fattispecie in esame, con nota dell’8.4.2009, notificata alle altre parti in applicazione dell’art. 300, comma 1, c.p.c., i difensori di P. hanno dichiarato il decesso del loro assistito. In mancanza di un atto di riassunzione nei confronti degli eredi nel termine previsto dall’art. 305 c.p.c., il giudizio risulta pertanto estinto.

In applicazione del citato art. 1 della legge n. 20 del 1994, e diversamente da quanto in genere previsto dall’art. 310, commi 1 e 2, c.p.c., l’estinzione riguarda in realtà il giudizio proposto dalla Procura Regionale nei confronti del sig. P. non il solo giudizio d’appello e comporta anzi l’estinzione della stessa azione di responsabilità.

3. Con memoria del 15.9.2011, e poi ancora in udienza, la difesa del sig. P.i ha chiesto la revoca del decreto di questa Sezione n. 28 del 2011, con il quale è stata respinta “l’istanza presentata dal sig. Domenico Perfetti, in applicazione dell’art. 1 commi 231-233 della legge n. 266 del 2005 e per la definizione del giudizio di appello avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per le Marche n. 588 del 7.9.2005”.

Orbene, sembra in effetti potersi ammettere, in applicazione dell’art. 742 c.p.c., la “revocabilità” dei decreti emessi su istanze di definizione dei giudizi di appello davanti a questa Corte presentate in applicazione della legge n. 266 del 2005 (cfr. Cass. SS.UU. n. 20588 del 2008, n. 16631 del 2009)

Sennonché, va in primo luogo considerato che la richiesta di “revoca” del decreto di rigetto di un’istanza costituisce, nella sostanza, una riproposizione dell’istanza stessa. E poiché la definizione agevolata dell’appello delineata dal citato art. 1, commi 231-233, della legge n. 266 del 2005 è chiaramente alternativa alla celebrazione del giudizio di secondo grado (cfr., ex multis, il decreto di questa Sezione n. 12 del 2008), sia l’istanza di definizione che la sua eventuale riproposizione non possono essere subordinate come è invece avvenuto nella memoria del 15.9.2011 ad un esito sfavorevole del giudizio stesso. In definitiva, la richiesta di “revoca” formulata con la memoria appena citata risulta inammissibile.

Può essere aggiunto che la richiesta di “revoca” presentata dal sig. P. andrebbe comunque respinta, poiché con il decreto in questione la Sezione si era limitata a rilevare che il giudice di primo grado aveva addebitato all’assessore P., come anche al segretario G. e al responsabile dell’ufficio di ragioneria B., una colpa grave di rilevante intensità: “pur mancando la prova della loro partecipazione all’ideazione e alla conduzione dell’attività illecita, appare manifesta, per quanto sopra esposto, la ripetuta totale inosservanza sia di precise norme giuridiche che di semplici regole precauzionali di condotta, correlate ai criteri della prevedibilità e della evitabilità dell’evento” (cfr. pagg. 36-37 della sentenza impugnata). E sul punto non risultano evidentemente “fatti di cui si sia presa conoscenza successivamente” all’emanazione del decreto n. 28 del 2011 (cfr. la sentenza di questa Sezione n. 248 del 2008).

4. Gli appellanti sostengono che l’atto di citazione della Procura Regionale aveva correttamente individuato il danno subito nella vicenda in esame dal Comune di Sarnano nel “differenziale tra le uscite finanziarie illegittimamente eseguite dal comune e l’utilitas derivante dalla realizzazione delle opere pubbliche relative” (così, in particolare, l’appello del sig. P).

La sentenza impugnata, invece, ha affermato che i pagamenti effettuati, essendo stati erogati senza valido titolo al termine di procedure amministrativo-contabili palesemente illegittime, costituiscono, per l’erario del Comune di Sarnano, un danno finanziario certo nel suo ammontare, effettivo ed attuale”. Al fine di considerare, in applicazione dell’art. 1, comma 1 bis, della legge n. 20 del 1994, modificato dall’art. 1 del d.l. n. 543 del 1996 convertito dalla legge n. 639 del 1996, i “vantaggi comunque conseguiti dall’Amministrazione in relazione al comportamento degli amministratori e dei dipendenti pubblici soggetti al presente giudizio di responsabilità”, la Sezione ha poi detratto dal danno complessivo il “valore delle opere”, ricavabile dalle “stime periziali esistenti agli atti”. Orbene, secondo gli appellanti questa “identificazione fra pagamenti erogati e danno”, formulata dalla sentenza impugnata, sarebbe erronea e risulterebbe comunque viziata da ultrapetizione.

Si tratta di una contestazione infondata.

Appare infatti indubbio che non vi è stato alcun mutamento del petitum e della causa petendi, in quanto la Sezione marchigiana ha condannato gli odierni appellanti, proprio come era stato chiesto dalla Procura Regionale, al risarcimento del danno subito dal Comune di Sarnano a causa dell’“esborso indebito di ingenti somme di denaro per lavori di valore inferiore ai pagamenti eseguiti ed in alcuni casi per opere nemmeno realizzate” (cfr. pag. 16 dell’atto di citazione).

In definitiva, non comporta alcuna differenza considerare nel calcolo del danno effettivo prima il valore delle opere realizzate e poi l’importo dei pagamenti oppure considerare prima i pagamenti e poi il valore delle opere.

5. Gli appellanti hanno contestato anche la quantificazione del danno effettuata dalla sentenza impugnata. Nell’appello del sig. P. ma argomentazioni analoghe si rinvengono anche nell’appello del sig. P.i si sostiene infatti che “la determinazione dell’esatta quantificazione della utilitas (posto che il Giudice non ritiene di poter aderire alle risultanze di una delle due perizie) deve avvenire assumendone una terza, come richiesta dai difensori allo scopo di determinare il se e il quantum del danno e di correggere in contraddittorio delle parti il divario (non solo quantitativo ma anche qualitativo) delle due perizie, oltretutto redatte in un diverso contesto giudiziario e con la finalità di accertare non già il danno subito dall’Ente pubblico bensì la maggiore o minore gravità dei reati contestati”.

Anche queste argomentazioni non convincono.

In primo luogo, va evidenziato che il giudice può “utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto ed in virtù del principio dell’unità della giurisdizione, anche prove raccolte in un diverso giudizio, svolto non solo fra le stesse ma anche tra parti diverse” (Cass. civ. n. 4652 del 2011, n. 7767 del 2007, n. 8096 del 2006 etc.). E nella fattispecie, la perizia disposta dal G.I.P. in sede penale, acquisita con le modalità dell’incidente probatorio, è stata poi sottoposta al contraddittorio delle parti nel giudizio davanti a questa Corte, sia in primo che in secondo grado.

Inoltre, il giudice può sempre valutare autonomamente secondo il suo prudente apprezzamento le risultanze di una consulenza tecnica che, di per sé, è priva di autonomo valore probatorio (Cass. civ. n. 5148 del 2011, n. 23063 del 2009 etc.) e pertanto non è nemmeno vincolato alla scelta tra il “prendere” e il “lasciare”. Può quindi discostarsi dalle risultanze di una consulenza anche solo in parte, motivando, come ha appunto fatto la Sezione marchigiana con la sentenza impugnata, sulle scelte fatte.

6. Sul punto, la sentenza del G.I.P. di Macerata n. 235 del 30.9/22.10.1998 aveva evidenziato che “già le consulenze tecniche svolte in fase investigativa avevano accertato una differenza sensibile tra il valore delle opere realizzate e le somme effettivamente corrisposte all’imprenditoria privata. Tale assunto aveva inoltre trovato conferma in particolare nelle risultanze di controlli incrociati presso soggetti indicati nella contabilità informale come fornitori di materiali utilizzati dalle imprese appaltatrici (segnatamente dalla impresa Superiori), i quali, sentiti dalla GdF, o esclusero del tutto la fornitura, o ne indicarono l’importo in misura sensibilmente inferiore rispetto a quella indicata in contabilità”.

Inoltre il G.I.P. aveva affermato, richiamando chiarimenti forniti dai consulenti d’ufficio, che “il primo vizio” delle perizie dei consulenti di parte, “concettualmente assai grave, è quello di aver applicato i prezzi unitari di nuova determinazione a quantità di opere spesso diverse da quelle considerate dai periti”, per cui erano state ottenute “stime maggiori di quelle dei periti” nominati dallo stesso G.I.P. “semplicemente aumentando la quantità e la qualità delle categorie dei lavori concorrenti nella formazione di un singolo intervento”; “Il secondo vizio, anch’esso molto grave, è quello di aver aumentato l’importo delle fatture relative alle prestazioni specialistiche fino ad un massimo del 35%” e “ciò è contrario sia alle leggi sui lavori pubblici sia al semplice buon senso”; “Il terzo vizio è quello di aver applicato alle opere contrattuali i prezzi contrattuali”, laddovenon sembra proprio il caso di additare a virtuoso esempio un mercato costituito dai prezzi dei contratti stipulati dal Comune di Sarnano”, preferendolo a “quello, forse povero ma sicuramente neutrale, del Prezzario regionale”.

La sentenza in questa sede impugnata ha invece motivato, sulla questione, in maniera in parte diversa.

La Sezione marchigiana ha infatti sostenuto che “i criteri adottati dai periti del GIP appaiono senz’altro preferibili a quelli proposti dai periti di parte, in considerazione del fatto che, trattandosi di accertare il valore di opere affidate irregolarmente (verosimilmente, quindi, anche a prezzi maggiorati), appare opportuno far riferimento ai prezzi generali di mercato anziché a quelli desumibili dagli atti contrattuali o dalle contabilità informali. Inoltre, i lavori in variante eseguiti sulle opere rimaste incompiute, in quanto ovviamente non necessari né funzionali alle opere stesse, avrebbero dovuto essere stimati con il criterio dell’indebito arricchimento (ai sensi dell’art. 2041 c.c.), detraendo dai prezzi di mercato l’utile d’impresa. Le divergenze maggiori (se non esclusive) riguardano le opere eseguite senza contratto le quali, mancando a volte perfino del progetto, sono state, per ammissione degli stessi periti del GIP, di difficile se non di impossibile rilevazione. Questa circostanza, in particolare, unitamente al carattere necessariamente soggettivo ed astratto delle valutazioni, induce il Collegio alla massima cautela nell’apprezzare complessivamente la stima effettuata dai periti del GIP, anche considerando che l’atto di citazione – come si è detto – non comprende nella domanda di risarcimento i lavori in economia, ammontanti complessivamente a lire 94.485.502. Per tutte queste ragioni appare impossibile stabilire, sulla base degli atti, una esatta quantificazione della utilitas ricevuta dall’Amministrazione e, conseguentemente, giungere alla determinazione del danno subito. Di qui la necessità di ricorrere alla valutazione equitativa prevista dall’art. 1226 c.c. ed espressamente richiesta dal p.m. in udienza. Ebbene, considerato tutto quanto precede, reputa il Collegio che sia congruo quantificare il danno in questione nell’importo complessivo di lire 700.000.000”.

Si tratta di una motivazione che chiarisce sufficientemente le ragioni per le quali la Sezione marchigiana ha considerato in linea di principio più convincenti i criteri di quantificazione del valore delle opere seguiti nella consulenza acquisita dal G.I.P. rispetto a quelli proposti dai periti di parte, ma ha ritenuto comunque necessaria una valutazione equitativa in applicazione dell’art. 1226 c.c.. E ciò in definitiva ha comportato, a beneficio dei convenuti, condanne al pagamento di un importo complessivo minore (lire 700.000.000) di quello che sarebbe risultato da un pedissequo recepimento della consulenza acquisita dal G.I.P. (lire 1.178.129.954).

7. Gli appellanti lamentano anche che la sentenza della Sezione marchigiana “non ha ritenuto gli interessi per i ritardi verso le imprese detraibili ai fini della c.d. compensatio lucri cum damno” (così, in particolare, l’appello del sig. Perfetti).

Orbene, che il pagamento di interessi per ritardati pagamenti costituisca non un risparmio ma un’ulteriore spesa per l’amministrazione e quindi un ulteriore danno effettivo, appare indubbio. E si tratta di ritardi alla formazione dei quali come ha esattamente rilevato la Procura generale nelle sue conclusioni citando ampia giurisprudenza di questa Corte non possono essere ritenute etiologicamente estranee “le irregolarità complessive nella programmazione, affidamento e gestione degli appalti

8. Nel gravame avverso la sentenza della Sezione marchigiana proposto dal sig. R.P…, si afferma che “la quota di responsabilità addebitata all’odierno appellante nella misura del 30% appare eccessiva e sproporzionata”. Si rileva che “i pagamenti di cui si tratta sono stati numerosi e protratti nel tempo e sono avvenuti in seguito ad altrettanti procedimenti amministrativi che hanno registrato il coinvolgimento di numerosi uffici ed organi dell’Ente”. Si esclude comunque che nella vicenda vi sia stata “alcuna volontà di produrre un danno all’Ente. Al contrario tutto l’operato del convenuto è stato orientato a reperire (seppure con modalità illegittime) i fondi occorrenti a pagare il corrispettivo di opere pubbliche in corso di esecuzione”.

Anche questi motivi di appello non sono condivisibili.

In primo luogo, va rilevato che il sig. P. è stato condannato in secondo grado per gravi reati, insieme con il sindaco Piergentili e in applicazione dell’art. 599, comma 4, c.p.p..

Questa disposizione, poi abrogata dall’art. 2 del d.l. n. 92 del 2008 convertito nella legge n. 125 del 2008, stabiliva: “La corte, anche al di fuori dei casi di cui al comma 1, provvede in camera di consiglio altresì quando le parti, nelle forme previste dall’articolo 589, ne fanno richiesta dichiarando di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi …”. E la giurisprudenza della Cassazione aveva ripetutamente chiarito che l’accordo sulla riduzione della pena raggiunto in applicazione dell’art. 599 c.p.p. configurava una sostanziale rinuncia dell’imputato a difendersi sul merito dell’accusa, con implicita ammissione di responsabilità (Cass. pen. n. 582 del 1996), per cui la decisione non poteva in alcun modo connotarsi diversamente da una qualsiasi sentenza di condanna (Cass. pen. n. 2689 del 1998).

Orbene, proprio sulla base degli accertamenti effettuati in sede penale, la sentenza impugnata ha potuto rilevare che “le condotte che hanno avuto una incidenza causale primaria nella determinazione del danno erariale sono quelle del sindaco e del dirigente dell’ufficio tecnico. Il primo, per essere stato protagonista, nella qualità di organo di vertice dell’Amministrazione locale, in tutte le decisioni che hanno riguardato gli appalti in questione e, dunque, per essere stato l’ideatore e il propulsore dell’intero piano delle illecite strategie gestionali. Il secondo, nella duplice qualità di responsabile dell’ufficio operativo del Comune e di direttore dei lavori, per essersi attivamente adoperato in tutte le fasi degli appalti, omettendo le progettazioni, predisponendo irregolari procedure di affidamento e allestendo tutta una serie di contabilità informali in luogo di quelle ufficialmente prescritte, allo scopo di giustificare la esecuzione dei lavori. E’ da sottolineare, al riguardo, che il ricorso sistematico alle contabilità informali è stata ammesso, in sede penale, sia dal sindaco che dal responsabile tecnico. Va inoltre evidenziato che gli stessi documenti erano tenuti dalle ditte appaltatrici ed elaborati a posteriori dal P. il quale non ha mai provveduto a far eseguire i dovuti collaudi ma ha sempre redatto in proprio i certificati di regolare esecuzione. …”.

Come ha rilevato la Procura Generale nelle sue conclusioni, a fronte di questa “consapevole e volontaria violazione delle regole di servizio e contabili poste a presidio della corretta amministrazione e a tutela della regolare gestione delle pubbliche risorse”, risulta chiaramente impossibile “sostenere la non sussistenza del dolo”.

In definitiva, l’attribuzione al sig. P. di una quota di danno pari al 30% dell’importo complessivo risulta del tutto coerente con la veste di co-protagonista nella commissione degli illeciti dallo stesso assunta nella vicenda in esame.

9. Anche il sig. . P. contesta il quantum di responsabilità che gli è stata attribuito dalla sentenza impugnata, affermando che aveva “solo partecipato (mai presieduto in qualità di Vice Sindaco!) ad alcune Giunte in cui venivano approvati provvedimenti (come contabilità, stati di avanzamento lavori, stati finali, perizie di variante e quant’altro), atti tutti predisposti dal tecnico comunale e sottoscritti dal Sindaco e come tali con il crisma incontestabile della regolarità formale ed amministrativa”; “la sua posizione” era “assolutamente identica a quella degli altri Assessori”, parimenti “indotti in errore dagli atti sopra elencati, ideologicamente falsi, ma pur tuttavia formalmente ineccepibili”; solo per i lavori effettuati per il Palazzetto dello Sport, l’albergo San Giacomo e il Teatro comunale l’assessore P. era venuto a conoscenza di irregolarità; la sua responsabilità non poteva essere comunque equiparata a quella del segretario comunale, “figura istituzionale che deve” tra l’altro “garantire la legittimità degli atti”; l’addebito di una colpa grave comporta comunque un “vizio di ultrapetizione”, dal momento che l’atto di citazione aveva invece contestato un comportamento doloso.

Sul punto, va in primo luogo sottolineato che il sig. P. è stato condannato in sede penale in applicazione dell’art. 444 c.p.p. e che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che la condanna su richiesta delle parti, se pure non fa stato nel giudizio di responsabilità amministrativa in applicazione dell’art. 651 c.p.p., ha però ugualmente un “particolare valore probatorio vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie” (ex multis: I Sezione n. 295 del 2009; per un principio “di sistema” che parifica, salvo possibili deroghe, “la sentenza di condanna pronunciata all’esito del patteggiamento rispetto alla condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario”, v. anche Corte costituzionale n. 336 del 2009).

Nella fattispecie, peraltro, la sentenza impugnata ha addebitato all’assessore ai lavori pubblici del Comune di Sarnano solo una responsabilità per colpa grave. Più precisamente, ha affermato che “l’assessore P., benché abbia formalmente partecipato alle decisioni riguardanti alcune opere soltanto, non poteva non sapere quanto stava avvenendo, e se non sapeva, deve allora ipotizzarsi a suo carico una responsabilità per colpa in vigilando”.

Ora, una rilevante colpa in vigilando del sig. P., non meno grave della colpa del segretario comunale, appare difficilmente negabile, dal momento che lo stesso appellante riconosce che gli era stata conferita una specifica “delega … all’interno del Servizio LL.PP. il fatto di non averla voluta usare non costituisce certo un’esimente e riconosce inoltre di essere anche venuto a conoscenza delle irregolarità concernenti almeno tre opere.

10. Non sussiste poi il vizio di ultrapetizione lamentato dal sig. P.

Sul punto, va preliminarmente precisato che il principio della “corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”, posto dall’art. 112 c.p.c., implica per il giudice il divieto di attribuire un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Il principio in questione deve pertanto ritenersi violato ogni qual volta il giudice alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione petitum e causa petendi attribuendo o negando un bene diverso da quello richiesto e non compreso nella domanda nemmeno implicitamente o virtualmente; oppure si mantenga nell’ambito del petitum ma rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che può essere sollevata soltanto dall’interessato; oppure ancora ponga a fondamento della decisione fatti estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda. Il principio di “corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” non impedisce invece al giudice di rendere la pronuncia richiesta non solo applicando una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante, ma anche delineando una ricostruzione dei fatti dedotti in giudizio autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti (Cass. civ. n. 11455 del 2004; v. anche Cass. civ. n. 532 del 1990, n. 3670 del 1996, n. 919 del 1999, n. 14552 del 2005, n. 11039 del 2006, n. 21745 del 2006 etc.).

Nella fattispecie, e secondo le richieste della Procura regionale, l’odierno appellante è stato condannato dalla Sezione territoriale al risarcimento dei danni subiti dal Comune di Sarnano in ragione del suo coinvolgimento nella vicenda quale vice sindaco e assessore ai lavori pubblici. E la configurazione, sulla base degli atti di causa, di una colpa grave anziché di un dolo non comporta alcun indebito mutamento del petitum e della causa petendi, ma solo un’attenuazione della responsabilità del convenuto da parte della Sezione.

Va anche evidenziato che la stessa Procura Regionale non aveva escluso la possibilità di una responsabilità per colpa grave anziché per dolo, dal momento che nell’atto di citazione si legge: “se comunque per alcuni degli anzidetti soggetti risultasse configurabile soltanto il profilo soggettivo della colpa grave dovrà farsi applicazione della ripartizione delle quote di responsabilità (art. 1 comma 1 quater legge 20/94) che allo stato vengono individuate, sulla base dell’apporto causale risultante dagli atti del procedimento, nella misura del 30% ciascuno a carico del P…li e del P., del 15% ciascuno a carico del P. e del G., e del 5% ciascuno a carico del B…e del T.”.

11. La colpa grave in vigilando addebitata al sig. P.attiene poi all’attuazione di una delega ai lavori pubblici il cui affidamento avrà certamente avuto motivazioni di natura politica, ma la cui attuazione (rectius: nella fattispecie, mancata attuazione) comporta precise conseguenze di natura giuridica, configurandosi in particolare come concausa del verificarsi del danno subito dal Comune di Sarnano nella vicenda in esame.

Inoltre, si tratta di una colpa in vigilando che rende il sig. P.corresponsabile dei danni subiti dall’amministrazione comunale per tutte le opere pubbliche in questione, non solo per quelle oggetto di deliberazioni approvate con la partecipazione dell’assessore ai lavori pubblici o per le quali l’assessore ha ammesso di essere venuto a conoscenza di illeciti.

In quest’ottica, una quota di danno pari al 15% non appare eccessiva e non comporta alcuna equiparazione ai più gravi addebiti posti dalla Sezione marchigiana a carico dei convenuti Piergentili e Polucci: per ognuno dei due, il 30% del danno complessivo, per giunta con vincolo di solidarietà per l’intero importo in ragione della natura dolosa degli illeciti commessi.

12. Vanno infine respinte anche le richieste di riduzione degli addebiti.

Come ha rilevato la Procura Generale nelle sue conclusioni,la “mancata applicazione del potere riduttivo non necessita di motivazione, mentre solo la sua applicazione richiede adeguata e puntuale giustificazione”. Al riguardo il Collegio richiama la condivisa giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, poiché la norma che prevede il detto potere (art.52 R.D. n.1214 del 1934) è derogatoria dei comuni principi civilistici di liquidazione del danno, la necessità della motivazione va affermata in particolare allorché si faccia uso in positivo di tale potere, mentre il diniego dell’applicazione della norma di favore, trattandosi di un potere discrezionale, ben può fondarsi su una motivazione che faccia scaturire dalla gravità della colpa l’esclusione del beneficio. Inoltre sempre nelle conclusioni della Procura viene rammentato che nella fattispecie “il beneficio è stato implicitamente applicato per la parte della sentenza che ha determinato le rispettive quote di danno dichiarate comprensive della rivalutazione monetaria”; e che “il beneficio di un’ulteriore riduzione va escluso nella considerazione della gravità dei fatti, evidenziata dalle collegate vicende penali”.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello, riuniti gli appelli:

▪ dichiara l’estinzione del giudizio di responsabilità proposto dalla Procura Regionale delle Marche nei confronti del sig. E.P.

▪ respinge gli appelli proposti avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per le Marche n. 588 del 7.9.2005 dai sigg. R.P.e D.P..

Ferme restando le già liquidate spese del primo grado di giudizio, i sigg. R.P.e D.P. sono condannati al pagamento anche delle spese del secondo grado, che per ognuno sono complessivamente liquidate in euro 573,92 ( cinquecentosettantatrè/92)

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6.10.2011.

L’estensore Il Presidente

Stefano Imperiali Gabriele De Sanctis

F.to Stefano Imperiali F.to Gabriele De Sanctis

Depositata il 2 NOV. 2011

Il Dirigente

(Dott.ssa Daniela D’Amaro)

F.to Daniela D’Amaro