Finanza pubblica: versamenti di previdenza integrativa e vincoli ex art. 9, co. 1 e 2-bis, D.L. n. 78/2010

NOTA

Il parere della Sezione Lombardia in epigrafe ritiene – con il supporto di una attenta disamina del più recente orientamento del Giudice delle leggi e della Cassazione – che alle prestazioni previdenziali integrative non può riconoscersi né natura, né funzione retributiva, perché l’erogazione di esse è determinata dal verificarsi del bisogno e non già dalla prestazione di lavoro.

Da ciò il duplice corollario che:

– i versamenti effettuati successivamente alla riforma del 1993 hanno carattere “contributivo-previdenziale”;

– le risorse destinate al finanziamento della previdenza integrativa, rivenienti dal monte sanzioni amministrative ex art. 208 CdS, non costituiscono componenti del trattamento economico, né fondamentale né accessorio e non soggiacciono alle limitazioni finanziarie di cui all’art. 9, co. 1 e co 2-bis, D.L. n. 78 del 2010.

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Lombardia/215/2012/PAR

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE DEI CONTI

IN

SEZIONE REGIONALE DI CONTROLLO PER LA

LOMBARDIA

composta dai Magistrati:

dott. Nicola Mastropasqua Presidente

dott. Giuseppe Zola Consigliere

dott. Gianluca Braghò Primo Referendario

dott. Massimo Valero Primo Referendario

dott. Alessandro Napoli Referendario

dott. Donato Centrone Referendario

dott. Francesco Sucameli Referendario (relatore)

dott. Cristiano Baldi Referendario

dott. Andrea Luberti Referendario

nella camera di consiglio del 8 maggio 2012

Visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con il regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, e successive modificazioni;

Vista la legge 21 marzo 1953, n. 161;

Vista la legge 14 gennaio 1994, n. 20;

Vista la deliberazione delle Sezioni riunite della Corte dei conti n. 14 del 16 giugno 2000, che ha approvato il regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, modificata con le deliberazioni delle Sezioni riunite n. 2 del 3 luglio 2003 e n. 1 del 17 dicembre 2004;

Visto il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (T.U.E.L.);

Vista la legge 5 giugno 2003, n. 131;

Vista la deliberazione n. 1/pareri/2004 del 3 novembre 2004 con la quale la Sezione ha stabilito i criteri sul procedimento e sulla formulazione dei pareri previsti dall’articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003;

Vista la nota n. 2697 pervenuta in data 23 aprile 2012, con la quale il comune di Vernate (MI) ha chiesto un parere in materia di contabilità pubblica;

Vista l’ordinanza con la quale il Presidente ha convocato la Sezione per l’adunanza odierna per deliberare sulla prefata richiesta;

Udito il relatore, Francesco Sucameli.

OGGETTO DEL PARERE

Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Vernate (MI) ha chiesto alla Sezione di rendere parere in merito alla disciplina finanziaria applicabile in caso di istituzione di un fondo di previdenza integrativa per la polizia locale, con specifico riferimento alle norme che pongono limiti al trattamento economico riconoscibile ai dipendenti.

Il ridetto fondo dovrebbe essere istituito, previo apposito accordo sindacale e regolamentazione interna, avvalendosi delle alternative di legge offerte dall’art. 208 del Codice della strada (da ora innanzi cds), che stabilisce l’obbligo di impiegare il 50% delle risorse derivanti dall’irrogazione delle sanzioni codicistiche tra una serie di finalità alternative (art. 208).

Richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui le erogazioni a favore di detti fondi, ai fini del bilancio, integrano “spese per il personale” e precisato che il comune non è ancora soggetto al patto di stabilità interno (PSI), in quanto inferiore a 5.000 abitanti, l’amministrazione civica chiede venga chiarito da questa Sezione quali sono:

i) le «restrizioni relative al trattamento economico del personale in vigore a far data 1/1/2011»;

ii) i limiti alla crescita della contrattazione integrativa ai sensi dell’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010, convertito in L. n. 122/2010.

PREMESSA

La funzione consultiva delle Sezioni regionali è inserita nel quadro delle competenze attribuite alla Corte dei conti dalla legge n. 131 del 2003 (recante la disciplina d’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

Pertanto, la prima questione che si pone, riguardo al descritto quesito, è quella del rispetto delle condizioni di legge per accedere alla funzione consultiva della Corte. A tal fine si rammenta che ai sensi dell’art. 7, comma 8, della citata legge n. 131 del 2003, Regioni, Province e Comuni possono chiedere alle Sezioni regionali – di norma tramite il Consiglio delle autonomie locali, se istituito – pareri in materia di contabilità pubblica, nonché ulteriori forme di collaborazione ai fini della regolare gestione finanziaria, dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.

AMMISSIBILITÀ SOGGETTIVA

Con particolare riguardo all’individuazione dell’organo legittimato a inoltrare le richieste di parere dei Comuni, si osserva che, per consolidata giurisprudenza, gli enti elencati dalla legge possono rivolgersi direttamente alla Corte in funzione consultiva, senza passare necessariamente dal Consiglio delle autonomie locali.

Poiché il sindaco del comune è l’organo istituzionalmente legittimato a rappresentante l’ente ai sensi dell’art. 50 T.U.E.L., la richiesta di parere è proposta dall’organo legittimato a proporla ed è pertanto soggettivamente ammissibile.

AMMISSIBILITÀ OGGETTIVA

Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo di ammissibilità del quesito, in premessa occorre rammentare che la disposizione contenuta nell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003 deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali.

Lo svolgimento delle funzioni è qualificato dallo stesso legislatore come una forma di controllo collaborativo.

Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma, rese esplicite, in particolare, con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere pareri in materia di contabilità pubblica.

Secondo le Sezioni riunite della Corte dei conti – intervenute con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 17, comma 31 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102 – il concetto di contabilità pubblica deve essere incentrato sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici” da intendersi in senso dinamico in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (Deliberazione del 17 novembre 2010,n. 54).

Con specifico riferimento alla richiesta analizzata dalla presente pronunzia, si conclude che la stessa, in forza delle predette considerazioni, risulta essere oggettivamente ammissibile e può essere esaminata nel merito, in quanto concernente la corretta applicazione di norme giuridiche che presentano un diretto effetto su flussi finanziari, attivi e passivi, di pertinenza pubblicistica e, correlativamente, l’interpretazione di norme di legge in materia di spese per il personale degli enti locali.

Per i suddetti motivi la presente richiesta di parere può essere esaminata nel merito.

MERITO

1. In primo luogo, va ricordato che il tema oggetto della presente istanza è stato largamente affrontato, nelle sue premesse, in un recente parere di questa Sezione (Lombardia/60/2012/PAR), nel quale sono state richiamate le linee interpretative e la giurisprudenza concernenti natura e regime finanziario dell’istituendo fondo, rammentando – come correttamente riportato dal comune istante – che la spesa sostenuta per la sua istituzione e implementazione costituisce a tutti gli effetti “spesa per il personale” e che, come tale, va inserita nel bilancio nel pertinente intervento del titolo I delle spese.

Nel fare rinvio ai contenuti del citato parere per quanto riguarda la ricostruzione storico-giuridica dell’istituto della destinazione di risorse a fondi di previdenza integrativa per la polizia locale (art. 208, cds, comma 4, lett. c), per comodità espositiva e per una migliore comprensione delle conclusioni in merito alla più specifica problematica qui sollevata, risulta utile ricordare:

a) che in base all’art. 208 cds, comma 4, l’ente che introita le sanzioni del Codice della Strada, irrogate dal proprio ufficiale accertatore, deve destinare un quota pari al 50% delle stesse a determinate finalità, prefissate dallo stesso articolo. Peraltro, il Legislatore si limita a indicare gli obiettivi perseguibili, mentre lascia libero il comune di scegliere discrezionalmente quali (e con quante risorse) perseguire; l’unica destinazione vincolata per legge, tanto per an che per quantum, è costituita dagli interventi per la sicurezza stradale (nella misura del 10% delle ridetta quota, cfr. in proposito Tar Puglia-Lecce, sez. II, sentenza del 16 novembre 2009, n. 2693). Tra le destinazioni non vincolate ma opzionabili, invece, si ritrova quella della istituzione o alimentazione di un fondo per la previdenza integrativa della polizia locale;

b) che la destinazione delle risorse a tali fondi non avviene automaticamente, ma deve essere effettuata “annualmente, con delibera della giunta” (art. 208 cds, comma 5). L’assenza di automatismi preserva la norma da censura sotto il profilo della violazione del principio dell’imparzialità e dell’indipendenza della p.a. (Corte costituzionale, sentenza n. 426 del 2000): infatti, il diaframma di un’apposita decisione discrezionale evita la creazione di un conflitto tra l’interesse all’obiettiva interpretazione della legge (cui è tenuta l’amministrazione) e l’interesse degli stessi accertatori a precostituire fondi a beneficio del loro trattamento previdenziale, con violazione dell’art. 97, primo comma, Cost.;

c) infine, che le risorse impiegate per la realizzazione della finalità previdenziale di cui all’art. 208 cds, comma 4, lett. c, costituiscono “spesa per il personale”, in quanto hanno occasione e motivo nello svolgimento di compiti e mansioni espletati nell’ambito di un rapporto di lavoro, sia pure nell’ottica del perseguimento dello scopo principale di incrementare la sicurezza sulle strade (cfr. ex multis i pareri n. 139 del 2011; n. 536 del 2010; n. 303 del 2010; n. 46 del 2009 di questa Sezione, nonché, Sezione regionale Friuli-Venezia-Giulia, parere n. 53 del 2011; Sezione regionale Piemonte pareri n. 37 del 2010, n. 46 del 2009 e n. 1 del 2009; Sezione regionale Toscana nn. 108 e 104 e del 2010).

Sulla base di queste premesse, nel caso di specie, essendo il comune un ente attualmente non soggetto al PSI, si ricava che lo stesso dovrà tenere conto della ridetta spesa ai fini dell’osservanza dei seguenti vincoli di bilancio:

– obbligo di contenere la spesa per il personale entro i limiti di quella storica del 2004, pena l’impossibilità di effettuare assunzioni (art. 1, comma 562, della Legge n. 296 del 2006, L.F. 2007);

– obbligo di mantenere un rapporto virtuoso tra la prefata spesa e la spesa corrente complessiva (cioè al di sotto del 50%) ai sensi dell’art. 76, comma 7, del D.L. n. 112/2008, pena, anche qui, il divieto di effettuare nuove assunzioni. Le Sezioni riunite, con le deliberazioni n. 3 e n. 4 del 2011, hanno specificato che tale articolo si applica agli enti non soggetti al PSI limitatamente alla esposta prima parte, non riguardo alla disciplina del turn-over, in quanto per essi continua ad applicarsi la specifica disciplina dell’art. 1, comma 562, L.F. 2007 (««assunzioni […]nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nel precedente anno» »).

2. Tutto ciò premesso, è bene contestualizzare i due quesiti contenuti nell’istanza di parere. Infatti, nei precedenti sullo stesso argomento (richiamati dalla citata deliberazione n. 60 del 2012) è stato largamente chiarito qual è l’impatto dell’istituzione di fondi di previdenza integrativa ex art. 208 cds sulle grandezze di bilancio soggette a misure di contenimento da parte del Legislatore, in particolare la spesa per il personale. Dette misure normative considerano tale spesa in una prospettiva indifferenziata, aggregata e consolidata; non altrettanto chiaramente affrontano il problema del rapporto tra l’istituzione del fondo e le norme contabili che limitano la discrezionalità dell’ente su piano della macro e micro gestione dei rapporti di lavoro, sia sul fronte del trattamento economico individuale che delle risorse per la contrattazione collettiva, norme che hanno il loro principale riferimento in vari commi dell’art. 9 del D.L. n. 78/2010 (come modificato dalla legge di conversione 30 luglio 2010, n. 122).

Infatti, tenuto conto della formulazione letterale dell’istanza qui oggetto di disamina, il quesito sub i), nel riferirsi alle «restrizioni relative al trattamento economico», non può che riferirsi, segnatamente, all’art. 9, comma 1, del citato Decreto, secondo il quale, limitatamente agli anni 2011, 2012 e 2013, «il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, […] ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione […] non può superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l’anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva […]».

Il quesito sub ii), peraltro, individua chiaramente il riferimento normativo in relazione al quale sorge questione, ovvero l’art. 9, comma 2-bis, allo stesso Decreto, ai sensi del quale «A decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 l‘ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio». In altre parole, il secondo quesito intende accertare se il versamento al fondo di previdenza integrativa, istituito ai sensi dell’art. 208 cds, costituisca o meno indiretta e differita erogazione di trattamento economico accessorio, poiché, in tale caso, il comune si scontrerebbe con il dato storico dell’assenza di analoghe previdenze nel 2010, con probabile superamento dell’“ammontare complessivo” assunto a parametro limitativo dall’art. 9, comma 2-bis.

In estrema sintesi, i due quesiti mirano a verificare in che rapporto l’eventuale istituzione del fondo si ponga:

i) con il limite alla crescita della trattamento economico individuale (quindi della spesa pro-capite dipendente) posto dall’art. 9, comma 1, D.L. n. 78/2010, ai sensi del quale esso non può superare quella “ordinariamente spettante” nel 2010;

ii) con la norma che vieta di superare l’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio nel 2010 (art. 9, comma 2-bis, dello stesso Decreto).

2.1. Tanto precisato, preliminarmente, ai fini del corretto inquadramento di entrambe le questioni, appare necessario soffermarsi sulla natura giuridica dei versamenti che il datore di lavoro effettua a beneficio dell’istituzione/alimentazione di un fondo di previdenza integrativa privata.

La qualificazione dei contributi che la parte datoriale eroga in favore della previdenza integrativa è stato oggetto di un annoso dibattito giurisprudenziale, che ha visto intervenire sia la Corte costituzionale che la Corte di Cassazione, per lungo tempo, su posizioni contrapposte.

La ragione normativa di tale dibattitto è da ravvisarsi nelle profonde innovazioni legislative intervenute all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso: a causa delle difficoltà storiche che hanno investito il bilancio statale, il Legislatore ha progressivamente riformato il sistema previdenziale, introducendo una serie di agevolazioni, normative e fiscali, tendenti a favorire la formazione di fondi privati finalizzati a soddisfare le esigenze future dei lavoratori, in grado di integrare la prestazione previdenziale pubblica.

Infatti, sia secondo l’abrogato D.lgs. n. 124/1993, sia secondo il D.lgs. n. 252/2005 (in particolare agli artt. 21 e 23), la funzione dei versamenti dei datori di lavoro a tali fondi, gestiti da soggetti privati, è quella di «assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale», in applicazione dell’art. 38, Cost..

A questo dato testuale, si aggiungono varie norme, anche antecedenti, tendenti a valorizzare la funzione previdenziale dei versamenti a fondi privati; tra queste, particolare importanza storica ha avuto quella rivolta ad escludere tali accreditamenti dalla base imponibile dei contributi di previdenza e di assistenza sociale a carico del datore di lavoro, ai sensi dall’art. 12 della Legge n. 153 del 1969.

La Corte costituzionale, con varie pronunce, ha sostanzialmente affermato che, ai sensi dell’art. 38 Cost., rientra nella discrezionalità del Legislatore stabilire il ruolo e persino la natura della previdenza privata: muovendo dalla constatazione della neutralità del disegno costituzionale rispetto alla fonte e ai soggetti che possono realizzare la previdenza sociale (sancito dal principio di libertà dell’assistenza, di cui all’ultimo comma dell’art. 38 u.c. Cost.), la Consulta ha riconosciuto al Legislatore ampia discrezionalità nell’individuare mezzi e sistemi in grado di assicurare una congrua soddisfazione delle esigenze future dei lavoratori, nei limiti del principio di ragionevolezza e di uguaglianza .

Di conseguenza – preso atto della riforma nel frattempo intervenuta e delle scelte effettuate dal Legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità – il Giudice delle leggi ha affermato che «le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi “emolumenti retributivi con funzione previdenziale”, ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale» (sentenza n. 421 del 1995, con un revirement rispetto a quanto sostenuto con la sentenza n. 427 del 1990; cfr. anche le sentenze nn. 178 e 393 del 2000).

In altre parole, la natura previdenziale del versamento che il datore di lavoro fa ad un fondo di previdenza privata è un corollario della struttura previdenziale della relazione che lega il lavoratore (e, indirettamente, lo stesso datore di lavoro) al soggetto privato erogatore della prestazione integrativa, che esercita una funzione di rilevanza costituzionale.

Ancora più esplicitamente, il Giudice delle leggi ha ritenuto che la riforma legislativa del sistema pensionistico ha determinato «un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare», idonea a collocare «quest’ultima nel sistema dell’art. 38, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 393 del 2000).

Per altro verso, la Corte di Cassazione (oltre alle SS.UU. n. 974/1997 e n. 296/2000, cfr. Cass. Sez. lav. n. 13558/2001, n. 81/2002, n. 783/2006), confortata anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza 28 settembre 1994, C-128/93; sentenza 17 aprile 1997, C-147/95), ha lungamente perseverato nel ritenere che i contributi alla previdenza privata o aziendale sarebbero comunque ascrivibili al concetto di retribuzione, sia pure differita ed indiretta, per l’inerenza causale che essi hanno al rapporto di lavoro.

Peraltro, sia pure qualificata come retribuzione differita finalizzata al perseguimento di interessi privati, la Cassazione ne riconosceva la “finalità previdenziale”, ovvero, la capacità di adempiere ad una funzione sociale propria e comune alla previdenza pubblica, provvedendo alle necessità del lavoratore che ha cessato l’occupazione. Cionondimeno, la “funzione previdenziale” di una prestazione pecuniaria non è sufficiente a qualificare come tale la natura del relativo credito, occorrendo, invece, la sussistenza di un elemento strutturale costituito dalla sua inerenza ad un rapporto giuridico distinto da quello di lavoro, anziché connesso (Cass. sez. lav. n. 3995/1994).

Tuttavia, di recente, la Suprema Corte di Cassazione, prendendo atto del diverso orientamento della Corte costituzionale, ha salomonicamente compiuto una parzialerevisionedel suo pregresso e pressoché costante orientamento: rivendicando la correttezza della propria precedente giurisprudenza, ne ha delimitato temporalmente la validità, individuando nella riforma del 1993 (D.lgs. 194) lo spartiacque a partire dal quale è mutata la condizione giuridica di tali accreditamenti; infatti, «[s]ino a quella data i trattamenti integrativi hanno avuto connotazione aziendalistica, carattere di corrispettivo e quasi premiale per il servizio prestato, con evidente natura retributiva. Caratteri che si sono persi in seguito alle modifiche legislative, come ha sottolineato la Corte costituzionale.» (Cass., sez. lav., sentenza n. 455 del 2011, confermata dalla successiva sentenza 20105 del 2011).

Successivamente alla riforma, quindi, i versamenti alla previdenza integrativa operati dai datori di lavoro sono stati riqualificati per via legislativa e sganciati, da un punto di vista causale, dal rapporto lavorativo; pertanto, essi non possono più porsi in un rapporto di corrispettività, differito e indiretto con la prestazione dei dipendenti, ma appaiono inseriti in una diversa relazione (trilatera) di tipo previdenziale fondata sulla legge.

In definitiva, in conformità ad un’interpretazione ormai condivisa, alle prestazioni previdenziali integrative non può riconoscersi né natura, né funzione retributiva, perché l’erogazione di esse (esattamente come avviene nella previdenza pubblica) è determinata dal verificarsi del bisogno e non già dalla prestazione di lavoro.

3. Sulla base delle considerazioni che precedono, i versamenti effettuati successivamente alla riforma del 1993 hanno carattere “contributivo-previdenziale” e, pertanto, le risorse destinate al finanziamento della previdenza integrativa, rivenienti dal monte sanzioni amministrative ex art. 208 CdS, non costituiscono componenti del trattamento economico, né fondamentale né accessorio e, pertanto, non soggiacciono alle limitazioni finanziarie di cui all’art. 9, comma 1 e comma 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010.

P.Q.M.

nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione.

L’estensore Il Presidente

(Dott. Francesco Sucameli) (Dott. Nicola Mastropasqua)

Depositata in Segreteria il

17 maggio 2012

Il Direttore della Segreteria

(Dott.ssa Daniela Parisini)